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    Pandev: 'Così Mourinho mi ha portato all'Inter. Gli Europei con la Macedonia, il Genoa e il mio futuro...'

    Pandev: 'Così Mourinho mi ha portato all'Inter. Gli Europei con la Macedonia, il Genoa e il mio futuro...'

    Dal Triplete con l'Inter al Genoa, fino all'esordio europeo con la Macedonia del Nord: Goran Pandev si racconta a 360° a Cronache di Spogliatoio, le sue dichiarazioni.

    Come sei arrivato a quasi 38 anni così?
    «Forse sono così carico perché sono alla fine. Sicuramente è il lavoro quotidiano, tutt i giorni. Alla mia età per star bene devi lavorare, devi allenarti più di prima, più di quando eri più giovane. Pensi a quello che stai mangiando, ad andare a letto prima, devi fare tanti sacrifici: li facevo anche prima, ma ultimamente di più perché a questa età i sacrifici ci vogliono per giocare a questi livelli, non è facile. Poi in Nazionale abbiamo fatto un’impresa bellissima».

    I gol decisivi contro la Georgia e la Germania. Che emozioni sono?
    «Tanta gente da noi ancora non ci crede, ma nemmeno io, ad essere sincero. La Germania è una squadra che negli ultimi 20 anni ha perso 2-3 volte, poi nelle qualificazioni pre-Mondiali abbiamo fatto una grande partita, non pensavo che la potessimo vincere. Abbiamo fatto veramente benissimo e siamo felici perché abbiamo vinto con una squadra che adesso può vincere anche l’Europeo perché è tra le favorite».

    Sei arrivato in Italia giovanissimo, esordendo in Serie A con quella che oggi, in Eccellenza, si chiama Anconitana: all’epoca era l’Ancona. C’erano Jardel, Hübner, Ganz...
    «Mi hanno mandato in prestito, ero all’Inter Primavera poi ho fatto Spezia in Serie C. Poi l’Ancona è salita fino in Serie A e mi hanno mandato in prestito là. Giocare in Serie A per me era un sogno, ho visto che giocatori aveva preso l’Ancona, fino al giorno prima li stavo guardando in TV e poi ho cominciato ad allenarmi con loro: una bella soddisfazione, anche se quell’anno siamo retrocessi per me è stata una bella esperienza per iniziare in un campionato molto importante perché la Serie A in quegli anni era il miglior campionato d’Europa».

    Ma è vero che Dario Hübner fumava all’intervallo?
    «Lui fumava sì, ma all’intervallo non l’ho mai visto. Forse in bagno. Fumava, ma era un grande giocatore. Era anche a fine carriera, per lui parlavano i gol, ne ha fatti tanti in Serie A».

    Cos’è cambiato da quel calcio a quello di oggi?
    «Sono cambiate tante cose, adesso pensi a cosa devi mangiare: c’è il nutrizionista, devi comportarti in un certo modo. Prima non era così, era più libero, ti divertivi molto di più, era più combattuta anche la Serie A. Secondo me era molto più forte. Adesso ci son tanti ragazzi giovani che già pensano di aver fatto grandi cose, entrano dentro e non gli si può dire neanche niente. Qua a Genova ci sono ragazzi bravissimi che possono ancora crescere tanto».

    Il primo regalo che hai fatto con il primo stipendio da professionista?
    «Con il primo stipendio, qua in Italia, ho regalato la macchina a mio padre. Aveva una macchina vecchia che usava per portarmi agli allenamenti e per poco non... prendeva fuoco. Mi ricordo che era una BMW 320 a Diesel. Non era nuova, l’abbiamo trovata qua usata. Io non mi sono regalato niente. Penso sempre prima alla mia famiglia».

    Dopo l’Ancona, la Lazio. La doppietta col Real Madrid, contro una super difesa: Ramos, Cannavaro, Heinze, Marcelo e Casillas in porta.
    «Grande difesa. A pensarci oggi mi sa che non tocco palla, ero più giovane. Sì mi ricordo quella partita, ho fatto 5 anni e mezzo alla Lazio, secondo me i migliori della mia carriera. Le partite più belle le ho fatte con la Lazio, con Delio Rossi che m’ha dato tanto, mi ha dato anche fiducia per giocare. Ho fatto tante belle partite alla Lazio e tanti gol, ho giocato in tanti ruoli, non solo attaccante, anche da esterno, quando è arrivato Di Canio. C’erano Rocchi, Muzzi, Peruzzi, Oddo, Inzaghi, giocatori importanti. Una bella esperienza».

    Il giocatore che ti ha insegnato di più in spogliatoio?
    «Zanetti, all’Inter. Lascia stare il giocatore, non se ne parla neanche perché è fortissimo. Una persona che veramente ti dà tanto e che ti parla, ti aiuta. Per me era molto importante».

    L’Inter del Triplete: com’è stato il primo colloquio con Mourinho?
    «Mi ricordo che ero fuori rosa alla Lazio, abbiamo risolto la causa e mi sono liberato dalla Lazio. Dopo mezz’ora dallo svincolo, mi hanno chiamato: ‘Devi venire all’Inter, sono Mourinho, devi venire da noi’. Gli ho detto ‘Mister ma come faccio a giocare? C’è Eto’o, c’è Milito, sono stato fuori rosa 6 mesi, non ho fatto una partita, non voglio venire là così...’. Mi ha detto: ‘Se tu stai bene e meriti giochi’. Poi il primo giorno l’ho incontrato alla Pinetina e mi ha detto ‘Questo, questi, non li devi seguire, devi fare la tua vita...’. Poi lui è uno molto sincero, ti fa sentire importante anche se giochi poco. Mi ricordo all’Inter, anche quelli che giocavano di meno gli volevano bene in una maniera incredibile. Ogni giocatore quando non gioca ha sempre qualcosa contro l’allenatore. Noi eravamo un gruppo molto forte ma è tutto merito suo perché ha creato una famiglia. Anche se non eravamo i più forti abbiamo vinto la Champions».

    Barcellona-Inter, nel tridente d’attacco c’è Chivu e non Pandev. Cos’è successo?
    «Mi ero fatto male nella partita d’andata, mi sono stirato nel primo tempo. Ho giocato grazie alle infiltrazioni e poi sono uscito. Non riuscivo a recuperare. Il mister mi ha detto: ‘Prova con le punture, fai riscaldamento’. Avevo tanto dolore e non ce la facevo, così ha messo Chivu. Mourinho gli ha detto: ‘Goran si è cagato addosso, non vuole giocare. Gioca Chivu avanti a sinistra’. Ho pensato: ‘Eh bene, ci difendiamo un po’...’. Però alla fine andata bene».

    La sensazione era che la finale fosse quasi scontata in favore dell’Inter?
    «Anche gli ottavi di finale li avevamo passati contro il Chelsea che era una squadra molto forte. Una volta passati Chelsea e Barcellona anch’io ho pensato che era giusto che la Champions la vincessimo noi».

    Il discorso pre-finale di Champions League lo ha fatto Eto’o o Mourinho?
    «Il discorso lo ha fatto Eto’o e ha detto che le finali non si giocano, si vincono. Poi Eto’o è uno che ha vinto tanto: Mourinho ha fatto parlare lui».

    80.000 persone a San Siro alle 6 di mattina, che roba è?
    «Sì, quando siamo arrivati da Madrid, mamma mia... Non ci credevo, siamo entrati a San Siro e c’era il sole, c’era un caldo incredibile, era pieno. Ci hanno detto che c’era gente da mezzanotte, dall’una, allo stadio. Poi
    io ho fatto l’antidoping fino alle 2... mamma mia».

    Il discorso pre-partita che ti ha colpito di più in carriera?
    «A me non piace molto parlare. La prima volta in Nazionale ho parlato nell’ultima partita contro la Georgia, forse perché dentro mi sentivo di ringraziare i ragazzi perché gli avevo detto che questa per me è l’ultima possibilità e ultima partita. Gli ho detto: ‘Giochiamo la nostra partita e quel che succede succede’. Però mi son sentito di ringraziarli e di parlargli. La loro risposta è stata: ‘Non è la tua ultima, vinciamo ed andiamo all’Europeo’. Una cosa bellissima».

    A Genova sei amato e ti vogliono bene.
    «Anche dentro lo spogliatoio siamo un bel gruppo. Anche nei momenti di difficoltà, ne siamo usciti fuori, anche negli anni precedenti. Tutti i giorni mi dicono: ‘Non scherzare, devi fare un altro anno'. Io sto bene fisicamente, ma per recuperare una partita mi ci vogliono 3 giorni, non è facile. Sento che qualcosa è cambiato. Come dicevamo prima, il calcio è cambiato tanto, ora ci sono i ragazzi che, tecnicamente non sono granché però corrono, è difficile. Vediamo dopo l’Europeo, adesso non voglio pensare a queste cose».

    Difficile abbandonare il campo?
    «Io parlo spesso con i miei ex compagni, tipo Stankovic. Mi dicono: ‘Gioca finché ce la fai, c’è sempre tempo per smettere’. Poi io non ho avuto tanti infortuni gravi, forse per questo sto ancora fisicamente bene. C’è gente che ha smesso prima di me perché ha avuto tanti infortuni».

    L’infortunio è solo sfortuna?
    «Il lavoro che fai tutti i giorni conta. Poi devi avere anche fortuna. Durante il riscaldamento ti puoi rompere anche il ginocchio, è successo anche a grandi campioni. Io ora conosco il mio corpo e so cosa devo fare. Se non faccio un certo tipo di lavoro, so che non sono pronto per affrontare certe partite».

    Come recuperi in fretta?
    «Sono arrivato dal Galatasaray e stavo fisicamente malissimo, anche moralmente. Qua ho recuperato dopo 6 mesi le condizioni. A Genova con Pilati e Fili si lavora tanto, si corre, facciamo tanta forza. Poi quando sono andato a giocare all’Inter o al Napoli, che giochi ogni 3 giorni e non hai tempo di lavorare, lì ho sentito fatica. Poi giochi una, due non giochi. È la forza che mi tiene ancora ‘in vita’».

    Gli allenamenti con Mourinho?
    «Con lui lavoravamo tanto, è tosto. Con lui si lavora tanto, anche palestra, corsa, poi quando fai le partitelle la gente va a mille. Non ti puoi gestire».

    Il Torneo di Viareggio?
    «Quell’Inter era una squadra molto forte. Era forse da vent’anni che non vincevano in Primavera. C’era Martins: gli buttavi la palla in avanti, pensavi andasse fuori e ci arrivava, era una roba incredibile. C’erano giocatori forti: Cordaz in porta, Pasquale che giocava dietro. Il 70% di quella squadra è arrivata in Serie A».

    Se potessi parlare con il Goran del Torneo di Viareggio, cosa gli diresti?
    «Un consiglio che posso dare a quel Goran... Se torno a 15 anni fa mi sa che cambio un po' la testa, sicuramente. Da giovane è giusto che tu faccia le cose che fanno i giovani. Qualche volta esci la sera e la mattina c’è allenamento. Se lo faccio adesso non recupero più. Prima andavi e non pensavi a queste cose. Vai alla partita, discoteca la sera e mattina allenamento: riuscivo a fare queste cose».

    Goran è un professionista, è malato di calcio?
    «Sì, io sono malato di calcio. Al primo anno in Italia sono arrivato a Milano dalla Macedonia, io stavo in una città piccolissima. A Milano il primo anno io non conoscevo neanche una discoteca. C’erano i miei compagni di Primavera che dopo la partita andavano a divertirsi, ma è normale che sia così. Io la mattina dopo ero a San Siro per vedere la partita, facevo il raccattapalle. Mi piaceva, c’era Ronaldo, come fai a non andare... Vedere così tanta gente a San Siro, 60.000 ogni domenica, era bello. Mi dicevo: ‘Spero di arrivare anch’io in Serie A’».

    Com’è sentire il proprio nome allo stadio dopo ogni gol?
    «Sicuramente finché giochi gli dai un peso, sempre. È bello anche qua, in gradinata. È bellissimo quando senti questo boato che dice il tuo nome».

    Resterai qua a vivere?
    «Sì sì resterò a vivere in Italia, ormai sono qua da vent’anni, metà della mia vita l’ho passata qua. Poi sono arrivato a 17 anni, quindi tranne il solo anno in Turchia, tutta la carriera l’ho fatta qua».

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