Grazie, Nibali: ti manda Pantani. Avevamo bisogno di un trionfo così
Al termine delle 20 tappe della Grand Boucle, il ciclista siciliano della Astana ha preceduto i francesi Jean-Christophe Peraud della Ag2r La Mondiale di 7'52" e Thibaut Pinot della FDJ.fr di 8'24".
Nibali è il settimo italiano a vincere il Tour dopo Ottavio Bottecchia, Gino Bartali, Fausto Coppi, Gastone Nencini, Felice Gimondi e Marco Pantani. E' in assoluto la decima vittoria dell'Italia al Tour de France.
"C'è un po' di nervosismo, ma è normale. Sono ancora frastornato". Sono queste le uniche parole di Nibali ai microfoni Rai dopo la vittoria. "Vincenzo? E' stato bravino", ha detto con dolcezza la moglie Rachele: "E' un sogno che si realizza, per Vincenzo e per me, che ci ripaga di tanti sacrifici".
Le hanno fatto eco i genitori di Vincenzo: "Per noi è una cosa grande, immensa: un'emozione che non si può descrivere", ha detto mamma Giovanna. "Arrivare qui è come un sogno. E' meraviglioso", ha aggiunto commosso papà Salvatore. "Sono molto felice per mio fratello, anche se mi dispiace non essere anche io a Parigi. A Messina c'è grande gioia ed euforia, siamo tutti contenti per Vincenzo".
Così Carmen, la sorella di Vincenzo: "Sapevo di avere un fratello numero uno al mondo. E' sempre stato così, dritto sui pedali e concentrato sui suoi obiettivi". A Messina è scoppiata una grande festa popolare.
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uardate che bel vincitore che abbiamo, come riluce con addosso quella maglia gialla, e una volta per tutte troviamo il coraggio di andare dal biondino con le lentiggini che sta soltanto due ombrelloni più in là del nostro, a dirgli che uno come Vincenzo Nibali in Germania se lo sognano, perché Vincenzino ce l’abbiamo solo noi.
Uno così ce lo devono invidiare tutti, e infatti ce lo invidiano. Non solo perché ha vinto il Tour de France dimostrando di essere il più forte, il numero uno senza mai risparmiarsi, attaccando sempre e comunque, e nemmeno perché un italiano non lo conquistava da sedici anni o perché è il sesto corridore della storia a vincere tutti e tre i grandi giri.
No, Nibali è molto più di questo. Con quel sorriso forgiato nella lega dell’ottimismo e l’espressione così lontana da quella che hanno gli sbruffoni accigliati, ha scalato le montagne, i Pirenei e le Alpi, si è preso la Vuelta, poi il Giro e adesso questo magnifico Tour, ricordandoci che ci vuole coraggio per affrontare la vita e i sogni e le altre salite, e che in ogni caso ce la si può sempre fare.
Uno così ce lo devono invidiare tutti, e infatti ce lo invidiano. Non solo perché ha vinto il Tour de France dimostrando di essere il più forte, il numero uno senza mai risparmiarsi, attaccando sempre e comunque, e nemmeno perché un italiano non lo conquistava da sedici anni o perché è il sesto corridore della storia a vincere tutti e tre i grandi giri.
No, Nibali è molto più di questo. Con quel sorriso forgiato nella lega dell’ottimismo e l’espressione così lontana da quella che hanno gli sbruffoni accigliati, ha scalato le montagne, i Pirenei e le Alpi, si è preso la Vuelta, poi il Giro e adesso questo magnifico Tour, ricordandoci che ci vuole coraggio per affrontare la vita e i sogni e le altre salite, e che in ogni caso ce la si può sempre fare.
Se non avessimo perso l’affetto e l’orgoglio di essere italiani diremmo che Nibali è davvero il più italiano tra i campioni. L’impresa del ragazzo di Messina è stata dipinta - un po’ da tutti - leggendaria e anacronistica. D’altri tempi, tempi nostalgici.
E invece il successo alla Grande Boucle è quanto di più attuale e limpido possa esistere in questo momento, perché figlio del nostro presente e nato da un figlio dei nostri tempi, che sta su Facebook e usa Twitter. Quando aveva sedici anni, Vincenzo aveva lasciato la sua terra, la Sicilia, per andare a vivere da solo in Toscana a imparare come si corre.
E’ partito come molti anni prima aveva fatto un altro Vincenzo Nibali, suo nonno, che aveva preso il piroscafo e ci aveva messo giorni e giorni per arrivare in Australia, dall’altra parte del mondo. Si dirà che in genere gli sportivi lo fanno sempre, emigrare incontro alla gloria, che i calciatori lo fanno anche prima di quando l’ha fatto lui, però questa è una storia di ciclismo e quindi infinitamente più faticosa. E’ venuto su tra le colline toscane, Nibali, senza mai dimenticare l’odore del sale portato dal Mediterraneo e le origini di picciotto con il naso a punta, e oggi che ha fatto la storia non si è dimenticato del suo passato, della sua terra né di chi lo ha cresciuto.
Mai come in questo medioevo sportivo l’Italia aveva bisogno di uno come Nibali. L’estate era cominciata con la faciloneria sui mondiali di calcio in Brasile: dove diavolo potevano andare gli azzurri con quella squadra lì? A casa, ecco dove. Ma scagli la prima pietra l’uomo che – per un secondo, uno soltanto – non abbia pregato e sperato nel miracolo prandelliano di una coppa con il mondo dentro. Lo facciamo sempre prima di ogni grande avvenimento sportivo. E’ un vizietto tipicamente italiano, ed è così innocente e potente da renderci di nuovo bambini, e quindi riabilitati al sogno a occhi aperti. Ma l’estate così era iniziata che già sembrava finita.
E invece ecco spuntare da dietro l’angolo la pedalata sicura e agile di Vincenzo, una pedalata che non soltanto ci ha fatto emozionare e sognare, che ci ha ricordato – questo sì – le imprese di Gimondi e Pantani, l’ultimo che il Tour lo ha vinto. L’impresa di Nibali restituisce nobiltà al nostro ciclismo e ridà credibilità a tutto lo sport italiano. In un attimo, in un calvario lungo ventuno, bellissime tappe.
Quando Froome è caduto e ha abbandonato la corsa, e quando lo stesso atroce destino è capitato a Contador poche tappe dopo, per Nibali non si sono spalancate le porte del trionfo: si sono schiuse quelle dall’eroismo. E’ andato a cercarselo, allora. Avrebbe potuto controllare, gestire la fatica, fare come il fiammifero che si accende di colpo e poi lentamente brucia. Avrebbe, sì. Invece non si è risparmiato. Mai. Ha vinto quattro tappe.
L’ultima, giovedì scorso, con in mezzo sua maestà il Tourmalet. Ha vinto anche quando non doveva vincere, sorpreso sul pavé, dominato sulle salite canaglie, e infine quando a due tappe dalla conclusione del Tour gli hanno chiesto “Vincenzo, hai sette minuti di vantaggio sul secondo. E’ fatta?”, lui si è fatto un sorriso e risposto con la calma dei giusti: “Ma sì, è un vantaggio considerevole”. C’è tanta di quella consapevolezza in quelle parole che metà basterebbe a risolvere i problemi di un Paese che l’ha persa.
Ci vuole consapevolezza e audacia per raggiungere i traguardi più duri. Ma anche organizzazione, umiltà, dignità. Fede. Nei propri mezzi, in quel che si vuole. Prima di vincere il Giro, nel 2013, Vincenzo aveva preso la Vespa di suo cugino ed era andato fino al Santuario di Tindari a promettere alla Madonna Nera che le avrebbe regalato la maglia rosa. Questa volta le porterà quella gialla. Nibali – che a un certo punto non aveva rivali – non si è mai sentito né il più forte né il favorito, ha corso come avrebbe corso se ci fossero stati Froome e Contador ancora in gioco.
Ha dimostrato che questo non è un paese di vecchi, eroici campioni perché ce n’è anche di nuovi. E che l’orgoglio italiano batte in un cuore generoso. Da mostrare al traguardo. O sul podio più importante che c’è. Lì, sui Campi Elisi.
www.bergamopost.it
E invece il successo alla Grande Boucle è quanto di più attuale e limpido possa esistere in questo momento, perché figlio del nostro presente e nato da un figlio dei nostri tempi, che sta su Facebook e usa Twitter. Quando aveva sedici anni, Vincenzo aveva lasciato la sua terra, la Sicilia, per andare a vivere da solo in Toscana a imparare come si corre.
E’ partito come molti anni prima aveva fatto un altro Vincenzo Nibali, suo nonno, che aveva preso il piroscafo e ci aveva messo giorni e giorni per arrivare in Australia, dall’altra parte del mondo. Si dirà che in genere gli sportivi lo fanno sempre, emigrare incontro alla gloria, che i calciatori lo fanno anche prima di quando l’ha fatto lui, però questa è una storia di ciclismo e quindi infinitamente più faticosa. E’ venuto su tra le colline toscane, Nibali, senza mai dimenticare l’odore del sale portato dal Mediterraneo e le origini di picciotto con il naso a punta, e oggi che ha fatto la storia non si è dimenticato del suo passato, della sua terra né di chi lo ha cresciuto.
Mai come in questo medioevo sportivo l’Italia aveva bisogno di uno come Nibali. L’estate era cominciata con la faciloneria sui mondiali di calcio in Brasile: dove diavolo potevano andare gli azzurri con quella squadra lì? A casa, ecco dove. Ma scagli la prima pietra l’uomo che – per un secondo, uno soltanto – non abbia pregato e sperato nel miracolo prandelliano di una coppa con il mondo dentro. Lo facciamo sempre prima di ogni grande avvenimento sportivo. E’ un vizietto tipicamente italiano, ed è così innocente e potente da renderci di nuovo bambini, e quindi riabilitati al sogno a occhi aperti. Ma l’estate così era iniziata che già sembrava finita.
E invece ecco spuntare da dietro l’angolo la pedalata sicura e agile di Vincenzo, una pedalata che non soltanto ci ha fatto emozionare e sognare, che ci ha ricordato – questo sì – le imprese di Gimondi e Pantani, l’ultimo che il Tour lo ha vinto. L’impresa di Nibali restituisce nobiltà al nostro ciclismo e ridà credibilità a tutto lo sport italiano. In un attimo, in un calvario lungo ventuno, bellissime tappe.
Quando Froome è caduto e ha abbandonato la corsa, e quando lo stesso atroce destino è capitato a Contador poche tappe dopo, per Nibali non si sono spalancate le porte del trionfo: si sono schiuse quelle dall’eroismo. E’ andato a cercarselo, allora. Avrebbe potuto controllare, gestire la fatica, fare come il fiammifero che si accende di colpo e poi lentamente brucia. Avrebbe, sì. Invece non si è risparmiato. Mai. Ha vinto quattro tappe.
L’ultima, giovedì scorso, con in mezzo sua maestà il Tourmalet. Ha vinto anche quando non doveva vincere, sorpreso sul pavé, dominato sulle salite canaglie, e infine quando a due tappe dalla conclusione del Tour gli hanno chiesto “Vincenzo, hai sette minuti di vantaggio sul secondo. E’ fatta?”, lui si è fatto un sorriso e risposto con la calma dei giusti: “Ma sì, è un vantaggio considerevole”. C’è tanta di quella consapevolezza in quelle parole che metà basterebbe a risolvere i problemi di un Paese che l’ha persa.
Ci vuole consapevolezza e audacia per raggiungere i traguardi più duri. Ma anche organizzazione, umiltà, dignità. Fede. Nei propri mezzi, in quel che si vuole. Prima di vincere il Giro, nel 2013, Vincenzo aveva preso la Vespa di suo cugino ed era andato fino al Santuario di Tindari a promettere alla Madonna Nera che le avrebbe regalato la maglia rosa. Questa volta le porterà quella gialla. Nibali – che a un certo punto non aveva rivali – non si è mai sentito né il più forte né il favorito, ha corso come avrebbe corso se ci fossero stati Froome e Contador ancora in gioco.
Ha dimostrato che questo non è un paese di vecchi, eroici campioni perché ce n’è anche di nuovi. E che l’orgoglio italiano batte in un cuore generoso. Da mostrare al traguardo. O sul podio più importante che c’è. Lì, sui Campi Elisi.
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