Mundial 82: flop dei documentari, vuoi mettere il Concorde di Panatta?
L’82 ha rappresentato qualcosa che evidentemente sfugge ancora alle dinamiche che finirono per trascinare tutta l’Italia per strada ubriaca di felicità per un evento mai vissuto prima. La rievocazione su Raiuno con Marco Giallini e la sua barba bianca che in versione Arnoldo Foà (magari…) prova ad esaltare gli eroi di Spagna 82, è di una pesantezza da telecomando alla mano. Unica eccezione, probabilmente, la lacrima sincera della figlia di Bearzot al ricordo del “Ciao Papà” di Bruno Conti. A questo punto resta da domandarsi se del Mondiale ‘82 si sapesse già tutto o non ci fosse davvero altro da analizzare e raccontare. Che si sia trattata di una semplice, straordinaria, irripetibile storia di vero sport come era quello di allora quando la vittoria si celebrava con una sbandierata in piazza e per la sconfitta al massimo ti beccavi in faccia una cassettata di uova marce e pomodori al rientro in aeroporto. Poi tutti a casa a riprendere la vita di tutti i giorni.
Impietoso appare il paragone con l’incomparabile documentario, sempre su Sky, “La squadra”, ovvero la storia dei 4 giocatori che vinsero la coppa Davis (regia di Domenico Procacci e con lo scrittore Sandro Veronesi tra gli autori). Ritmo incessante, episodi, filmati d’epoca, confronti, aneddoti si intrecciano senza sosta. Come in un infinito back stage tra sospiri, smorfie, risposte a bruciapelo, si resta incollati puntata dopo puntata scoprendo una storia sconosciuta ai più visto che il tennis in Italia fino al ciuffo vincente di Panatta veniva identificato come uno sport d’élite. Un mondo nel quali anche i nostri tennisti più forti giocavano più per divertimento che per altro. Panatta si concedeva il lusso di viaggiare in Concorde avanti indietro per il mondo fermandosi nelle città più esclusive per incontrare donne altrettanto esclusive. La sofferenza del borgataro Tonino Zugarelli, la maniacalità del sempre esausto Barazzutti e la vanità del capitano dei capitani, Nicola Pietrangeli. Il tutto perfettamente inserito negli anni ’70, periodo storico controverso che culminò con la travagliata sfida finale al Cile di Pinochet. Un documentario quello di Procacci che ha poco da invidiare persino all’incommensurabile “The last Dance” con la storia di Michael Jordan e dei Chicago Bulls degli anni '90.
Forse è il caso di ammettere che il calcio è stato già fin troppo raccontato per elaborare un grande documentario in grado di trasmettere emozioni autentiche (rarissime le eccezioni, fra tutte “Sunderland till I die” almeno per il sottoscritto). Per tutto il resto c’è Instagram.