Getty Images
Mourinho può tornare The Special One
Per un attimo da quando è a Manchester non c'è stato il viso crucciato delle grigie partite d'inizio stagione ma il fuoco della resistenza, la volontà di superare l'ostacolo e di farlo assieme ai suoi giocatori. C'è stata la voglia di tornare a dirigere anziché limitarsi a osservare e al tempo stesso di trasmettere in quel momento un'idea semplice e concisa in quel gesto: vinciamo insieme. E così è stato alla fine di una partita con qualche fiammata e vari errori tecnici. Un primo passo in avanti nella fredda Manchester che ancora non l'ha capito e che lui non sente ancora sua, fortemente legata com'è a Sir Alex Ferguson, il manager mito rappresentante con Busby, Charlton e Best dell'iconografia più grande e imperitura di una storia vincente.
Nello stadio dei sogni l'uomo José si è sentito spaesato fino ad ora. Lui il grande empatico, il suggestivo cattivo della panchina che gioca al napoleonico, ha avvertito nei suoi confronti da parte dell'ambiente che da sempre sogna di dirigere solitudine e lontananza profonda dal calore messianico capace di emanare Stamford Bridge. In un grande segno di reverenza per le vittorie ottenute insieme. I suoi silenzi in panchina, i suoi continui pensieri, il grigiore nelle scelte e nell'impostazione della squadra sono le immagini e la comunicazione della sua malinconia interiore. Uno stato d'animo che lo coinvolge da lontano e che ne descrive l'anima triste di questi primi mesi di Manchester.
Un tratto che ha incontrato dentro se stesso lo scorso anno, quando perdendo il suo ascendente subì la rivolta dei suoi pretoriani. La città del suo cuore Londra l'abbandonò così come i giocatori facendogli rivivere i caratteri di Madrid dove, per contrasto con l'orgoglio spagnolo, per la prima volta non fu più re in panchina. Entrambe quelle battaglie furono perdute, entrambe le volte la sua empatia, nel momento difficile, venne meno e lasciò spazio al suo carattere gotico che si affascina giocatori, tifosi e narratori ma che è troppo oscuro e distruttivo quando le cose vanno male, per invertirle. E' un tratto che suggestiona ma che brucia la sua energia positiva, la sua forza di volontà, il suo carisma del tutto è possibile vera magica alchimia nell'apogeo interista di sei anni fa. Allora c'era lui e una grande squadra dentro una costruzione complessa e affascinante che seppe superare tutti gli ostacoli per raggiungere l'obiettivo. Oggi Manchester si legge un po' Madrid, un po' Londra versione vittoriana.
Ieri nel confronto infinito con un altro grande guru della panchina Guardiola ha cercato di comunicare di nuovo se stesso prima ai giocatori e poi al pubblico, quello dei famosi quindici minuti infernali fatti di calore nel sostenere la squadra e ribaltare le partite già segnate o di vincere quelle insperate. L'ha fatto con i gesti e nell'uscire dal campo ha forse intuito come ritrovare il grande José che fu. Dopo aver vinto e salutato Guardiola senza più i rancori della terra di Spagna, si è incamminato verso il sottopassaggio e lì ha incontrato lo sguardo di migliaia di sostenitori dei diavoli rossi. Nel guardarli non ha scelto il distacco, ma ha mimato con le mani il quattro prima e lo zero poi e dopo le ha congiunte chiedendo scusa per i soprusi calcistici della Londra oggi di Conte. Forse in quell'attimo ha capito come uscire dalla buca di quest'ultimo anno e mezzo. E probabilmente mentre vedeva nei suoi pensieri la sua Londra amara e la gotica Madrid avrà pensato nel suo cuore affinché Manchester non sia anch'essa oscura al suo tratto più grande, l'empatia.