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    Mondonico, il ragazzo che come noi amava i Beatles e i Rolling Stones

    Mondonico, il ragazzo che come noi amava i Beatles e i Rolling Stones

    • Marco Bernardini
    Periodaccio nero. Soltanto posti in piedi sul treno delle partenze. Troppi gli addii. Da non poterne più e chiedere una tregua. Quando, poi, ad andarsene sono gli amici il dolore per il distacco si fa persino fisico. Come se una parte di te stesso venisse strappata con barbara violenza. Emiliano Mondonico è stato e sarà sempre un amico. A Rivolta d’Adda, il suo posto delle fragole dove viveva con la famiglia, nella notte si udiranno i suoni dei tamburi mentre, intorno al fuoco acceso, danzeranno gli spiriti che non dimenticano per non essere a loro volta scordati. Come una “festa” pellerossa quando il vecchio capo tribù aveva deciso che quello sarebbe stato un bel giorno per morire. Chiudeva gli occhi, dopo aver lanciato il suo sguardo verso l’orizzonte dove volano alte le aquile, e si congedava dal mondo che lo aveva visto protagonista di mille ed epiche battaglie. A rendergli omaggio arrivavano le tribù di tutto il popolo di “wakan tanka”, il sacro bisonte bianco.

    Il rituale per Emiliano Mondonico sarà più o meno lo stesso, almeno a livello di immaginazione. Perché sarebbe lui a volerlo così. E sono certo che la moglie Carla e le figlie Francesca e Clara faranno in modo che la volontà di “papo” venga rispettata così come dovrà essere onorata la figura di un uomo speciale. Verrà allestito, nella fattoria, uno stupendo banchetto ruspante con affettati di qualità e ottimo vino rosso. Niente lacrime, per favore. Lui non cedeva al pianto. Neppure quando sette anni fa gli dissero che la Bestia lo aveva scelto e poi cominciarono a privarlo di pezzi interni al suo corpo. Quella settimana lì ci invitò nel suo “accampamento” (i soliti noti Mura, Garanzini, Beccantini, Vergnano e il sottoscritto) per darci la brutta nuova. “Vedrò di battere anche questa… se potrò”, ci disse pregandoci di continuare a mangiare come se niente fosse. Sette anni fa. Restano, preziosi, sul mio telefonino tutti i messaggi ricevuti in occasione delle feste comandate e del compleanno. Non ha mancato mai un appuntamento, Emiliano. Non verranno mai cancellati. Come il suo viso e la sua espressione di combattente talvolta gladiatorio, un vero capo, che sapeva condurre in battaglia quelle che lui amava definire “le mie tribù di guerrieri pellerossa che venderanno sempre cara la pelle contro il potere eri visi pallidi”.

    Cremonese, Torino, Atalanta e Fiorentina. Erano quelle le sue tribù, da calciatore prima e da allenatore dopo. Le due vite professionali di Emiliano. Il giovane Mondonico con, in campo, i calzettoni abbassati sotto la caviglia come Sivori e la sua leggerezza di ala un poco frillina poco amante delle regole rigide. Un ragazzo come noi che amava i Beatles e i Rolling Stones al punto da scappare dal ritiro granata per raggiungere Milano dove cantavano e suonavano Lennon e i suoi fratelli oppure farsi espellere con la maglia della Cremonese per poter saltare il turno successivo e andare così al concerto della “Pietre rotolanti”. Gli piaceva vivere di emozioni autentiche preferendo la buona tavola e la musica persino al gol. A seguire il Mondonico che aveva deciso che cosa fare da grande. L’allenatore. Mica quelli da lavagna, però. Neppure da papà o da fratello maggiore perché così, alla fine, perdi il rispetto. Da compagno di viaggio, da capo tribù sul suo cavallo nero e lucido come la pece. Un cavallo selvaggio, da lui domato, che di tanto in tanto rivelava la sua natura libera con la criniera al vento. Una sedia sventolata in aria, come il “tomahawk”, per protestare contro l’arbitro il quale aveva penalizzato il suo Toro ad Amsterdam a favore dell’Ajax. I pugni chiusi verso il cielo davanti alla panchina di quell’Atalanta che era casa sua. La gioia irrefrenabile per la promozione della Fiorentina che era la sua squadra del cuore e per la quale perse la testa anche la figlia Francesca.

    Poi l’ultima battaglia, da uomo semplice ma senza demandare ad altri il titolo di capo tribù. Sette anni in difesa del suo accampamento che era la vita. Con dignità, senza rabbia o livore. Sette anni di lotta e la guerra, alla fine, perduta perché la Bestia non lascia  scampo neppure al più coraggioso e forte dei guerrieri. Suoni di tamburi lontani da Rivolta d’Adda e bagliori di luce all’orizzonte. Mentre il treno dove è salito Emiliano viaggia all’incontrario.

    @matattachia
     

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