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    Milan, non sono lacrime di coccodrillo

    Milan, non sono lacrime di coccodrillo

    • Marco Bernardini
    In certe occasioni le espressioni del viso e soprattutto la fotografia degli occhi valgono assai di più delle parole. Lo sguardo, in particolare, rivela l’esistenza o meno di un’anima dentro. Ieri sera, immediatamente dopo il finale della gara di Coppa che aveva sancito ufficialmente la realtà di una vera epopea bianconera, mi sono impegnato seriamente per fissare nella memoria i volti dei giocatori e dei dirigenti del Milan sui quali le telecamere disposte in campo insistevano legittimamente per dovere di cronaca. Primi piani molto accurati che, annotandoli lì per lì per poi rileggerli con più calma, portavano a conclusioni diverse rispetto alla situazione sportivamente e aziendalmente “drammatica” di un “ex squadrone” costretto per la terza volta consecutiva a guardare l’Europa affacciato alla finestra degli esclusi. 

    Volevo tentare di capire come e perchè Cristian Brocchi, durante la settimana,  avesse tracimato lasciandosi andare a giudizi davvero poco lusinghieri nei confronti dei suoi giocatori che, secondo la sua spietata analisi, prima di scendere in campo lasciavano il cuore chiusi dentro l’armadietto degli spogliatoi. Ebbene, fermo restando (e detto da un partigiano bianconero dovrebbe valere il doppio) che quella di ieri è stata una partita che il Milan non avrebbe meritato di perdere anche se non è “colpa” della Juve avere un Morata che spesso inventa numeri da circo, il giovane tecnico rossonero ha sbagliato soltanto in parte nel pronunciare quelle cose facendo, come si dice, di tutt’erba un fascio.

    Le lacrime non mentono. Si vede subito se sono autentiche perché figlie di un cuore davvero spezzato oppure come quelle tipiche del coccodrillo che piange per aver la pancia troppo piena. Irrefrenabile, addirittura, il pianto di Calabria che persino qualche avversario juventino correva ad abbracciare per tentare, invano, di consolarlo. Lucidi gli occhi di De Sciglio e di Bonaventura, certamente non soltanto per lo sforzo fisico tanto potente quanto inutile. Romagnoli con il bordo della maglietta stretta tra i denti. Non la molla più, manco quando gli passano la borraccia per bere. Donnarumma in ginocchio a capo sempre più chino sino a toccare l’erba. E certamente non per pregare Allah. Montolivo, in panchina, è una statua di sale. Accanto a lui Abbiati, pallido come un cencio, che mestamente saluta il pubblico rossonero della curva dal quale era stato osannato per il suo addio al calcio. E anche loro, tanti del popolo rossonero, con le lacrime agli occhi. In tribuna, Berlusconi e la figlia Barbara i ritratti della desolazione più pura ma non quelli della resa. Galliani una maschera di cartapesta a Carnevale finito. Gli altri? Più o meno tutti della serie: “Viva il re di Francia, viva il re di Spagna l’importante è che se magna”. Balotelli in testa.

    Lacrime giovani, come si vede, quelle del Milan. Lacrime non retoriche e neppure inutili ma molto significative. Proprio da loro, cioè da quei ragazzi che hanno trovato il coraggio di piangere, si potrebbe e si dovrebbe ricominciare. Sarebbe giusto. Sarebbe doveroso.

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