Il 1 febbraio il Milan perfeziona l'ingaggio in prestito con diritto di riscatto di Amantino Mancini. Il giorno dopo Silvio Berlusconi da Gerusalemme sentenzia: "E' un acquisto che proprio non capisco, oltretutto è fermo da due anni". Discutibile la tempistica dell'uscita del patron rossonero, ad oggi non lo è il contenuto: su Mancini aveva ragione lui. Lo score dell'ex interista con la maglia del Milan conta 266 minuti in 7 presenze, 0 reti e diverse occasioni sprecate o meglio divorate. Sul suo piede destro si è di fatto interrotta la corsa scudetto: il 21 marzo contro il Napoli sull'1 a 1 spara addosso a De Sanctis, lì il Milan dal possibile sorpasso ai cugini si inceppa, sbanda e non ritrova più la strada. Il brasiliano riuscirà poi a fare peggio, contro la Samp a porta vuota disturbando il riposo dei gabbiani del Marassi. In pochi mesi da attesa arma in più il suo posto diventa la tribuna, Amantino diventa l'icona di una campagna acquisti povera e sbagliata, criticata e non poco dai tifosi.
E ora che fare? si sta chiedendo la dirigenza rossonera: nel prestito il diritto di riscatto sarebbe in realtà un obbligo tacito di acquistarlo dall'Inter: una stretta di mano tra Galliani e Ghelfi avrebbe sancito il patto. Ora però da via Turati si cercano soluzioni alternative pur di disfarsene, da qui i frequenti incontri con il procuratore Gilmar Veloz. Ora Mancini è più che mai una grana nel Milan: Berlusconi non l'avrebbe voluto vedere neanche in cartolina e forse ora vorrebbe che Leonardo, una volta svuotate scrivania e armadietto, se lo portasse via con sé nella sua valigia.