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Marino per CM: Quando i giocatori si compravano con l'aiuto del tabaccaio
Si viveva circondati dal profumo di un calcio antico, in cui i tifosi, che riempivano regolarmente tutti gli Stadi di Serie A, insieme ad un manipolo di presidenti mecenati, appassionati della propria squadra fino a rischiare le proprie aziende, erano gli unici veri finanziatori delle Società. Le Società di A avevano un ricco boxoffice (abbonati e paganti), pochi spiccioli di diritti televisivi, niente pompose strutture di Marketing, ma costi di gestione più umani di oggi.
Il patrimonio tecnico e finanziario costituito dal diritto alle prestazioni dei giocatori era protetto dal “vincolo a vita”, quindi era solido e duraturo, e non una bomba ad orologeria come oggi, così perversamente legato all’incubo di onerosi e continui rinnovi contrattuali. La prerogativa di poter gestire il vincolo del tesseramento di un calciatore professionista, indipendentemente dalla stipula di un contratto pluriennale, metteva qualsiasi società in condizione di poter serenamente pianificare il proprio progetto tecnico ed avere la tranquillità di poter gestire i tempi idonei per la cessione dei giocatori più forti, oppure in qualche caso tenerseli a vita. Pensate che, un calciatore in scadenza contrattuale, che non raggiungeva l’accordo di rinnovo, rimaneva ugualmente tesserato per il club di appartenenza, salvo il diritto a percepire il minimo di stipendio, che in Serie A negli anni ottanta era poco meno di due milioni di lire, abbastanza, comunque, per vivere bene. In questo caso, la Società doveva corrispondere lo stipendio, ma non poteva utilizzarlo in gare ufficiali, mentre il calciatore era tenuto ad allenarsi regolarmente. Ecco perché le parti avevano tutto l’interesse di venirsi incontro per trovare un accordo “ragionevole” di rinnovo, oppure una cessione che fosse di ampia soddisfazione soprattutto per il club.
Per questo motivo non si sentiva l’esigenza di un calciomercato troppo lungo e costellato di settimane morte come quello di oggi. Allora, tutte le trattative si concentravano in una finestra di quindici giorni che generalmente si collocava tra il primo ed il quindici luglio di ogni anno, mettendo così in condizione le squadre di andare in ritiro, come è più logico che sia, con un organico già pressoché definitivo. La seconda finestra di mercato, detta di “riparazione” durava cinque o sei giorni ed era fissata per la prima settimana di novembre.
In quei nevralgici quindici giorni di luglio tutto il gota dei presidenti e degli operatori di mercato del calcio italiano, al netto di procuratori ed agenti, di cui, naturalmente, non si sentiva né la necessità, né la mancanza, era costretto a stabilirsi ininterrottamente a Milano, per seguire e monitorare da vicino tutte le trattative ed allestire in pochi giorni la squadra che poi avrebbe affrontato il campionato. I più ricchi andavano al Gallia o all’Hilton, altri, per non gravare molto sul bilancio societario o sul portafoglio personale, viste le tariffe stratosferiche di quei due lussuosi hotel, preferivano sistemarsi nei tanti alberghi minori della zona Stazione Centrale.
Frotte di direttori sportivi, mediatori, osservatori ed i pochi giornalisti (non più di cinque o sei) dei quotidiani sportivi e non, giravano freneticamente nei saloni del Gallia o sostavano sui marciapiedi antistanti l’albergo, formando piccoli capannelli da cui si innalzava un inimitabile brusio, un vero e proprio rombo del motore del calciomercato. Da questi gruppetti, con ritmica frequenza, si staccavano tre o quattro persone che, scattavano verso gli ascensori per raggiungere frettolosamente le camere, nel timore, del venditore e dell’acquirente che l’affare potesse disgraziatamente saltare.
In quella caldissima prima quindicina di Luglio, il tempo per fare la squadra era così poco che le trattative continuavano giorno e notte. In ventiquattro ore potevano concludersi anche più di cento trasferimenti riguardanti calciatori professionisti. I saloni si svuotavano magicamente solo all’ora di pranzo e per cena, ma, non temete una pausa, perché, anche in quei ristoranti preferiti dai principali direttori sportivi (“Colline Pistoiesi”, “Costa Smeralda”, “L’Assassino” ecc…) gli operatori continuavano ad inseguirsi instancabilmente, per definire le trattative, magari sperando di poter contare sull’aiuto della sana euforia di un buon bicchiere di vino in più.
Ma, sapete cosa succedeva appena firmato un contratto di trasferimento? Vi svelo subito l’arcano, i segretari o i diesse delle Società, come morsi da una tarantola, si precipitavano in strada, con due possibili destinazioni. La più frequente era l’Ufficio Postale, ma spesso la destinazione era un mitico tabaccaio di Via Vitruvio, che prima del calciomercato faceva adeguate scorte extra e non certo di sigarette.
- Alle Poste si andava, pensate, per fare un telegramma al domicilio contrattuale del calciatore e comunicargli il trasferimento. Il regolamento prevedeva che, se il giocatore (intanto in vacanza ed irraggiungibile) non avesse, a sua volta spedito, entro cinque giorni, una miriade di telegrammi e raccomandate alle Società ed alle Leghe, il trasferimento risultava automaticamente accettato ed il suo vincolo passava alla nuova Società. Pensate che facilitazione per il nostro lavoro di dirigenti.
- Dal tabaccaio, invece, si andava, addirittura, per acquistare centinaia di milioni di lire di titoli cambiari, perché molti trasferimenti, non essendo alcune società in condizione di fornire le prescritte fidejussioni bancarie alla Lega, avevano la speranza di chiudersi solo attraverso un pagamento in cambiali, frettolosamente sottoscritte, a volte, persino dagli stessi addetti ai lavori o da parenti od amici dei presidenti, generando una serie di leggendari episodi che un giorno, forse, vi racconterò.
Pierpaolo Marino