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    Manchester United: dopo Ferguson il diluvio, ma non è colpa degli allenatori

    Manchester United: dopo Ferguson il diluvio, ma non è colpa degli allenatori

    • Andrea De Luca
    "Persino Alex Ferguson, se gli fosse stato chiesto di sostituire Alex Ferguson, avrebbe fallito". La citazione dal sapore di motto popolare dice tanto, ma non tutto, sulla attuale situazione del Manchester United. A cinque anni e mezzo di distanza dall'ultima apparizione in panchina del colosso scozzese, quattro allenatori (includendo la breve parentesi di Ryan Giggs) si sono avvicendati ad Old Trafford. Diventeranno cinque sabato, quando Ole Gunnar Solskjaer guiderà la squadra a Cardiff. Ma la questione allenatore  è solo la punta dell'iceberg di problemi che hanno una natura ben più profonda.

    UNICO E INIMITABILE - Nel 2013 Sir Alex lasciò un club apparentemente in salute. Un club che lui stesso aveva modellato e forgiato a suo piacimento nei precedenti 26 anni, fino a renderlo una trasposizione in campo di se stesso. Ferguson è stato molto più che un semplice allenatore per il Manchester United. Le capacità manageriali oltre la media, sommate a una conoscenza capillare di ogni singola struttura e dinamica della società maturata negli anni, gli avevano permesso di tenere le redini in pressoché totale autonomia. Poche interferenze esterne e zero politiche di decentramento. In Inghilterra concordano in molti nel dire che quando Moyes arrivò a Manchester cinque anni fa, più che come allenatore fu assunto come vittima sacrificale: nessuno avrebbe potuto continuare a far girare gli ingranaggi di un marchingegno così ben oliato senza l'olio.

    SOCIETA' ASSENTE - Allo United è mancata in questi anni una seria capacità di programmazione, uno sguardo a lungo termine su ciò che sarebbe stato dopo Ferguson. Una società assente e con modeste competenze in ambito calcistico (e spesso contestata dalla tifoseria) non è più stata compensata dalla presenza di un vero e proprio factotum in panchina. A differenza di altre big inglesi, la dirigenza dello United non si è mai posta il problema di impostare una propria filosofia sportiva, lasciando mano libera ai tecnici e intromettendosi, spesso, a sproposito. "Chi in società ha una qualifica per poter dire a Mourinho che non può comprare un centrale di difesa?", tuonava solo pochi mesi fa l'ex Gary Neville. La squadra è finita per diventare un pot-pourri di diverse scelte tattiche e - soprattutto - interpreti. Giocatori acquistati e strapagati, non per dar realizzazione a una precisa idea di gioco, ma per esaudire esigenze e richieste del momento. Una dimostrazione? Gli oltre 200 milioni di euro spesi per Lukaku, Sanchez e Pogba lasciati in panchina (il cileno addirittura in tribuna) nella sfida dello scorso novembre contro lo Young Boys, vinta solo al 91', col serio rischio di essere estromessi dalla Champions League.

    GIOVANI E FUTURO - E mentre le rivali concentravano i propri investimenti sullo sviluppo di un valido settore giovanile, lo United è rimasto a guardare. Significativo è il caso di Wayne Rooney e Darren Fletcher, ex bandiere del club che hanno deciso di far giocare i propri figli nel Manchester City per garantirgli una migliore crescita. I Red Devils non usufruiscono più di legami con club satelliti (come fanno invece il Chelsea con il Vitesse o lo stesso City con il Girona) a cui mandare in prestito i propri giovani. La squadra under 23 è addirittura retrocessa nella scorsa stagione. Rashford e Lingard sono, ad ora, gli unici due talenti prodotti dal vivaio ad aver raggiunto buoni livelli negli ultimi anni. Solskjaer ora farà il possibile, in attesa magari di un nuovo grande nome (Conte? Zidane?) per la prossima stagione. Ma una cosa è certa: i problemi dello United vanno risolti in primis fuori dal rettangolo verde.

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