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    Maldini e Del Piero, fuga di cervelli

    Maldini e Del Piero, fuga di cervelli

    • Marco Bernardini
    Non sono ancora trascorsi quattro anni, eppure sembra una vita fa. E’, per la cronaca, il 12 maggio 2014. Sul campo da gioco del Juventus Stadium i bianconeri di Antonio Conte stanno ricamando il loro nuovo scudetto sulle maglie, colore rosa per l’occasione, con l’Atalanta a fare da dignitosa damigella sacrificale. Al ventottesimo minuto del secondo tempo accade ciò che tutti hanno sperato con ansia. Da appena fuori area Alessandro Dl Piero carezza il pallone come soltanto lui riesce a fare infilandolo alle spalle del portiere bergamasco. Sarà il  suo ultimo regalo per la Signora  al cui servizio lo aveva piazzato Boniperti. Un coro planetario, "Un capitano, c’è solo un capitano”, accompagna le squadre verso lo spogliatoio per l’intervallo. Al minuto dieci della ripresa, Conte fa un gesto. Alex si toglie dal braccio la fascia, la consegna al compagno più vicino e si avvia verso la panchina dove indosserà la giacchetta della tuta gialla. Dovrebbe essere tutto finito. Invece tutto sta per cominciare. Lo spettacolo più bello e anche più toccante del mondo dopo quello del Big Bang. Non un solo spettatore rimane seduto sulla poltroncina. Tutti in piedi, i bambini in braccio perché possano vedere meglio, e a battere le mani all’indirizzo del “mito”, il quale anziché infilare il sottopasso comincia il suo giro d’onore sommerso da affetto e da sciarpe bianconere che lui, una ad una, raccoglie da terra. Il suo nome e il suo cognome urlati in coro hanno la potenza del tuono. Il tempo si ferma, letteralmente, e nessuno ma proprio nessuno rivolge più la propria attenzione ai giocatori in campo. Ciascun tifoso, juventino ma anche no, segue la figura di Del Piero che con passo volutamente lento procede nella sua circumnavigazione dello  stadio rispondendo con un applauso a chi lo applaude e inviando baci a chi gli spedisce baci. Anche le telecamere di tutte le televisioni hanno smesso di inquadrare dove si sta giocando a pallone.  La festa, la grande festa farcita di amore e di struggimento malinconico, è tutta lungo la periferia del campo. E sembra voler smettere mai, come un bel sogno. Ma per qualcuno, evidentemente, si tratta di un incubo piuttosto che di un sogno.

    Cinque anni prima, sempre di maggio,  al Meazza di San Siro. Il Milan di Carletto Ancelotti ospita la Roma. Vinceranno i giallorossi per tre a due, ma si tratta di un dettaglio buono per le statistiche. In  realtà la maggioranza degli ottantamila spettatori si è data appuntamento allo stadio per celebrare un giorno speciale e per rendere legittimo tributo a un campione che ha scritto pagine memorabili della storia rossonera. Per  Paolo Maldini, il capitano, è arrivato il momento del congedo per quel che riguarda il calcio giocato dopo  una carriera a dir poco memorabile. Il finale lo lascerà basito, incredulo, incazzato di brutto al punto da rivelare in seguito che quello fu il peggior giorno della sua carriera. E’ vero che una grande fetta del Meazza, dopo il fischio di chiusura della gara, lo applaude scandendo il suo nome. Ma è altrettanto “storia” l’inimmaginabile evento che vede l’intera curva ultras rossonera  fischiare sonoramente il suo capitano e ricoprirlo di insulti molto pesanti. E Paolo, che si aspettava un’ovazione in linea con tutto ciò che lui aveva fatto per il Milan in anni di fedeltà assoluta alla bandiera, paradossalmente dovette attendere sette giorni per ricevere dal pubblico viola di Firenze la meritata standing ovation. Qualcuno, evidentemente, seduto nelle tribuna del Meazza, non avrebbe sopportato l’idea che il “mito” potesse trasferirsi dal campo ad un ufficio con  tanto di scrivania dirigenziale per acclamazione popolare.

    Due storie che, viaggiando in parallelo, vanno alla fine a combaciare per confermare una strampalata regola moto italiana secondo la quale (Andreotti docet) “Il potere consuma chi non ce l’ha e chi ce l’ha è pronto a tutto pur di non farselo portare via”. Pronto anche ad ogni tipo di nefandezza, mi  permetto di aggiungere. Morale dei due film. Per l’ennesima volta siamo costretti a registrare una dolorosa e masochista operazione chiamata “fuga di cervelli”. Paolo Maldini e Alex Del Piero, infatti, hanno ampiamente dimostrato di essere due fuoriclasse non solo con il pallone tra i piedi. Il loro status innato di “giocatori pensanti” li ha certamente aiutati a lavori in corso, ma li ha anche mortificati nel momento in cui avrebbero potuto (e dovuto) entrare a far parte del Sistema  Guida per il bene dell’intero movimento. Siamo un Paese di gente strana dove è quasi impossibile trovare l’uomo giusto messo al posto giusto. Altrimenti persone come Rivera e Zoff non sarebbero mai state alla finestra del calcio. E Roby Baggio non si sarebbe trovato in Federazione per temperare le matite. Sicchè Paolo, per poter mettere in opera il suo spirito manageriale, ha dovuto migrare in Florida dove si è comprato il Miami permettendo a Galliani di  tirare un lungo sospiro di sollievo. In quanto ad Alex, cresciuto anche sotto l’aspetto dirigenziale dopo le esperienze maturate in luoghi alla fine del mondo, è pressoché scontato che andrà a fare le fortune del Mallorca, in Spagna, perché neppure alla Juve ci si  può permettere una “bandiera” più amata e più grande delle altre. Buon per loro che, oltre a divertirsi lavorando e a guadagnare, respireranno anche aria di mare migliore che non a Milano e a Torino. Ma che delitto, però!
     

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