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Luis Alberto: 'Lazio per sempre, ma ho pensato di andare via. Mi manca Milinkovic'
SENZA SMS - "Non mi sono liberato dalla partenza di Milinkovic-Savic, e non è che non mi manchi un po'. Però è vero che nei sette anni passati insieme eravamo noi a doverci prendere delle responsabilità, mentre adesso, con tanti nuovi, devo fare per due. È un ruolo che mi sono preso io, da solo, perché penso che così debba essere. Sono nella Lazio da anni, oggi mi sento più maturo, completo, devo aiutare un po' di più".
CON IMMOBILE - "Io e Ciro dobbiamo essere i più coinvolti, soprattutto quando le cose non vanno bene, quando la squadra non ha i punti che dovrebbe avere. L'importante, in situazioni come questa, è restare liberi di testa e sicuramente tutto arriva. Io credo che l’immagine della Lazio sia Ciro, anzi è Ciro. Rispetto tanto la società, così come rispetto Ciro e penso che sia lui l'emblema della squadra. Ha fatto tante cose belle. Non so cosa dicano o pensino di me, fuori di qui. Non ho questa preoccupazione. Sono anni che sento voci, tante voci e di ogni genere. Buone, cattive. Non mi sfiorano né le une, né le altre. Io sono così, sono un po' strano. Nel calcio attuale se dici una cosa del genere sembra che tu sia malato. Vado sempre avanti per la mia strada, seguo le mie sensazioni. Se ti piace quello che dico e faccio, bene. Se non ti piace il problema è soltanto tuo. A volte lo faccio apposta ad alzare un po' di polvere, specie quando cerco una motivazione extra. Mi piace fare un po' di casino, mi piace provare quella tensione, quelle sensazioni. A volte mia moglie mi dice: devi fermarti, non andare oltre. Io sono così, se voglio fare una cosa la faccio, non mi curo degli effetti. Se penso che una cosa sia giusta per me, è impossibile fermarmi".
SUL MERCATO - "Tutti dicevano un sacco di cose: vuole andar via, vuole il Siviglia e tornare in Spagna, ma io non ho mai detto alla società di volermene andare al 100%. Ho spiegato che avevo qualcosa in mano e che se era anche nel loro interesse sarei partito volentieri. Il Cadice è un discorso diverso, non è attuale, è la squadra del mio paese, sono le mie radici".
SARRI - "Il nostro era un rapporto un po' strano. La squadra stava giocando senza di me e, giustamente, io volevo il campo. Gli chiesi se potevo andare in prestito per sei mesi. Anche per prendermi un po' di responsabilità, andar via mi avrebbe aiutato, avrebbe aiutato me e il Cadice. Io e Sarri siamo molto simili, proprio per questo abbiamo vissuto momenti un po' così. La mia testa andava da una parte, la sua da un'altra. Un allenatore deve pensare al bene del gruppo e non tutti gli allenatori, in certi momenti, sanno gestire alcuni giocatori. Ne abbiamo parlato, tranquillamente. L'anno scorso si è presentato dopo dieci giorni, senza aver visto nessuno, per la preparazione di novembre e dicembre, con il campionato fermo per il Mondiale. Io volevo il Cadice, ritrovare la migliore condizione fisica, giocare. Lui avrà notato qualcosa di diverso in me e mi ha detto "tu non vai da nessuna parte, se ti alleni bene giochi sempre". Da gennaio in avanti è cambiata la musica e anche la mia testa. Si deve imparare un po' da tutti. Anche quando stavo male con lui, parlando di calcio con gli amici spiegavo di averlo aiutato a capire qualcosa. Ma è soprattutto lui che mi ha aiutato a diventare un giocatore più forte, completo. Grazie a Sarri sono cresciuto tatticamente, nelle fasi di non possesso e difensiva. Era quello che mi mancava, oggi mi sacrifico di più senza perdere lucidità e brillantezza".
L'ULTIMO DEI MOHICANI - "Il calcio è cambiato. Non è un calcio che mi piace tanto, però è così. Tanti allenatori vogliono giocatori di un metro e novanta con un fisico impressionante, non sono io quel genere di atleta. Più dell’atletica conta la testa, no? Sono obbligato a giocare con la testa perché, come ti ho detto, se guardi il mio fisico non è proprio il massimo, non ho un muscolo. E non ho nemmeno una corsa bellissima. Però, come dico sempre, alla fine tutto sta nella testa e se la mia testa corre più veloce e libera non ce n'è per nessuno. Di calciatori con lo stile di gioco mio o di altri prima di me, oggi non ne vedo. Sono un amante del calcio di tecnica e se un giorno farò l'allenatore proverò a ritrovare il calcio che più mi piace. Ma io penso che il calcio alla fine vinca sempre, l’abbiamo visto con Guardiola, con la nazionale. Per fare del buon calcio, e non solo per vincere, si può seguire l'esempio del Brighton di De Zerbi. Vedo belle cose anche nella la nazionale spagnola, e da tanti anni. Quanto è importante il calciatore e quanto l'allenatore? Ci sono giocatori che conoscono l'esatta differenza tra le indicazioni dell’allenatore e quello che devono fare, e si comportano di conseguenza. Bisogna rispettare il lavoro del tecnico, ma se non si ha la libertà, che a volte un po' si perde, sono guai. Ti dicono "perché fai questo?". "Se il mister ti chiede di buttarti da 5 metri devi farlo". Le scelte in campo le compie chi gioca, l'allenatore aiuta con l’organizzazione. Due anni fa Ancelotti disse: "Io posso aiutare un giocatore difensivamente, ma non posso togliergli la creatività".
NIENTE NAZIONALE - "Gli allenatori seguono le loro idee, i loro princìpi. Nella Spagna c'è gente giovane, soprattutto a centrocampo, Gavi, Pedri, Fabian. Non mi chiamano. Fabian Ruiz è molto tecnico, sì. Io parto un po' di più con la palla, ma credo che lui calci da fuori area meglio di me. Siamo un po' diversi, però, sì, alla fine siamo giocatori con la palla".
SOGNI - "Mi vedo molto meglio di quando avevo 23 anni. A volte penso di esser stato stupido. Se avessi avuto questa testa otto anni fa non so dove avrei potuto giocare. Adesso mi metto pressione da solo. Voglio vincere qualcosa, non so cosa, ma voglio vincere di più. Non mi piace uscire dal campo senza poter dire "non mi posso rimproverare nulla, ho dato tutto". Voglio arrivare il più lontano possibile in Champions e riconquistarla a maggio. Vediamo se si fa viva anche la nazionale".