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Lotta scudetto, a Reggio il Milan non vivrà un 5 maggio né diluvi di nessun tipo: è la storia a confermarlo
COSA CAMBIA - Nei due precedenti, infatti, che riguardano la Juve (battuta nell’acquitrino di Perugia) e l’Inter (travolta all’Olimpico nel secondo tempo), lo scenario ci poneva di fronte a due squadre assolutamente stanche, svuotate dalla lunga corsa, logorate dalla necessità di tenere la testa, nonostante le energie fisiche e nervose fossero in riserva se non del tutto scomparse. Il Milan di oggi e di domenica arriva allo scontro decisivo in condizioni opposte. Prima di tutto vince sempre (al contrario di quanto avessi previsto io, dopo il sorpasso causato dalla sconfitta interista di Bologna), poi è in salute perché tutti i suoi effettivi sono in forma, non ha paura (Juventus e Inter ne avevano tanta), ha consapevolezza della propria forza e, soprattutto, può contare su due risultati su tre: la vittoria (probabile), ma anche un salvifico pareggio. Come ormai tutti sanno, in caso di arrivo a parità di punti (sarebbero 84 in forza della vittoria dell’Inter sulla Sampdoria e del pareggio del Milan con il Sassuolo), i rossoneri vincerebbero lo scudetto in ragione degli scontri diretti favorevoli. Questo particolare, per nulla secondario, consente al Milan di affrontare gli emiliani senza l’impellenza di andare in vantaggio presto o di gestire la vittoria fino alla fine. Non dico, ovviamente, che si tratti di giocare per il pari (sarebbe comunque deleterio), ma di sicuro il Milan avrà una maggiore tranquillità nel cercare il gol, determinando il resto della gara.
IL CASSETTO DEI RICORDI - E siccome c’ero sia al Curi che all’Olimpico (lavoravo per il Corriere della Sera) racconterò dell’ angoscioso approccio alla partita, del nervosismo in campo, dell’aggressività del Perugia (presidente era il vulcanico Gaucci, romano, legato alla Lazio, la concorrente della Juve, e pretese il massimo impegno in campo), delle gambe tremebonde dei bianconeri. Così come ansiosa era l’Inter di Cuper, braccata da vicino dalla Juve, in caduta verticale dal punto di vista psicologico, nonostante una settimana di preparativi per la vittoria che denunciavano più timore che sicurezza. Questa volta non mi sembra che possa finire così, cioè con il secondo che beffa il primo proprio sulla riga del traguardo. Di certo, per me certissimo, c’è solo che l’Inter batterà la Sampdoria e si metterà in attesa di notizie dall’Emilia. Solo il Milan, dunque, può perdere il titolo, ma l’urgenza di conquistarlo è maggiore. Allora, a Roma, ricordo le facce preoccupate degli interisti in campo e il gran gesticolare di Di Biagio prodigo nel dispensare consigli a tutti sull’esito finale della gara. I laziali giocavano a ritmo lento, di contraggenio. L’Inter capì, ma aveva le gambe molli e una serpe in gola. I suoi calciatori, tranne che in occasione dei gol (uno da calcio d’angolo con errore plateale di Peruzzi), non riuscivano nemmeno ad avvicinare l’area. Fu una fine lenta, l’eutanasia di una squadra che non riesce più neanche a pensare e lascia il campo all’avversario. Infatti, nonostante le lacrime di Materazzi che implorava comprensione (“perché ci fate questo?”), alla fine segnarono sia Simeone che Simone Inzaghi (sì, proprio lui), stracciando non un sogno, ma la realtà. Diversa la storia di Perugia, due anni prima. L’arbitro era Collina e, a parte la sua discutibile decisione di far durare l’intervallo 63 minuti perché il fortunale che si era abbattuto sul Curi smettesse, la Juve avrebbe perso lo stesso. La allenava Ancelotti e, a otto giornate dalla fine, aveva nove punti di vantaggio. Cominciò il suo inesorabile declino perdendo, proprio dalla Lazio, a Torino. Poi un’agonia fatta di pareggi, altre sconfitte (ricordo Verona dove sarebbe bastato un pareggio), un arrancare penoso verso l’epilogo. Che fu amarissimo perché la Lazio, complice lo sgambetto del Perugia ai bianconeri, si prese lo scudetto. L’immagine che ancora oggi mi tormenta è il pianto incontenibile di William Vecchi, un uomo già anziano, preparatore dei portieri di Ancelotti, quasi sdraiato dal dolore sulla panchina di un’incomprensibile sconfitta.