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    Essere laziali ai tempi di Lotito

    Essere laziali ai tempi di Lotito

    • Matteo Quaglini
    Un tempo era una religione. Un tempo nemmeno troppo lontano era il tratto distintivo di una tifoseria. Un tempo era il lascito di padre in figlio di una filosofia. Un tempo tutto questo aveva un nome, si chiamava lazialità. Una fede laica per un popolo che ha fatto dei suoi misticismi sparsi in 116 anni di storia, le sue bandiere di appartenenza e di diversità. 

    Lati pieni di luci affascinanti come lo scudetto 1974 vinto con l'anarchia piratesca di quella che era una banda immaginifica alla Sergio Leone prima ancora che una squadra, ma anche e soprattutto una grande squadra. E luci più glamour e meno romantiche che però hanno dato lustro e animato la lazialità, come lo scudetto del 2000. Ma anche lati oscuri di drammatiche memorie. Il bello e il brutto, patrimonio di ciascuno di noi. 

    Oggi questa religione laica, questa coscienza vive il periodo storico del disamore e della protesta. Un sacerdote dedito al culto di sé, secondo il tifo laziale, ne ha cancellato i tratti introducendo i riflessi del personalismo anziché salvaguardare e innovare una tradizione centenaria. 

    I laziali glielo rimproverano ogni giorno, ogni minuto, ogni partita. Il tifo che scelse l'aquila e la Grecia come pietre militari della sua identità, rivede in Lotito i comportamenti e gli ostracismi degli antichi imperatori cinesi, dinasti che per anni vietavano la conoscenza della storia di un popolo, per impedirne il senso critico caposaldo dell'identità. 

    Lo scontro giusto o sbagliato che sia è oggi totale. E irreversibile. Quando dodici anni fa, nel 2004, Lotito rilevò la Lazio dal presidente Longo, la Lazio era scossa dalle ultime crollanti vicende di Sergio Cagnotti ma manteneva intatta la sua fede, allargata da successi italiani ed europei che ne abbellivano, come classici o quadri d'autore, l'anima e il cuore. Le radici della fede affondavano nei giocatori della memoria: Piola, Nesta, Chinaglia, Re Cecconi, Salas, Veron, Fiorini, Frustalupi, Di Canio, Pulici e altri raminghi che erano re della memorabilia laziale, forse non tutte bandiere, forse più avventurieri letterari di un racconto che era ed è nell’attimo, che poeti del football. Ma tutti certamente intrisi di lazialità. 

    Definire questa idea che i laziali hanno di sé, non è facile. Prima perché ciascuno di noi è padrone profondo e custode geloso dei suoi tratti, poi perché quello che può apparire da fuori può essere diverso dal di dentro. Però la storiografia laziale in questi anni si è raccontata, sulle pagine dei giornali, con le assenze dallo stadio, con il ricordo nostalgico e quindi fatto di sentimento dei suoi oracoli, dei suoi pensatori storici. 

    Un modo per raccontare a loro detta di un’insofferenza profonda, di un’incertezza ormai perenne, un modo per denunciare un sogno cadente e per individuare il Pizarro di turno, il signore di Cuzco, l’uomo del monopolio sentimentale mai concesso ai sudditi, il predatore di sogni, il pragmatico Lotito. 

    E in questo racconto è emerso un dato storico e morale su tutti, la mancanza di emozione. Quell'attimo che fagocita tutto e che tutto racchiude. L'accusa del tifo laziale all'algido dott. Lotito è proprio questa, l'assenza ingiustificata e ingiustificabile dell'emozione, del pathos che avviluppa, del cuore caldo. E' l'anima greca della tifoseria laziale che avverte con più insofferenza il senso di vuoto che a suo dire, da l'andamento piatto e giornaliero della Lazio targata Lotito. 

    La freddezza di oggi è grande tanto quanto l’emozione di ieri. I laziali rimpiangono i momenti di culto della loro storia, si sentono nonostante alcune coppe Italia vinte, privi dell'illusione. Sì dell'illusione, intesa con accezione spagnola della parola quindi come sogno. Perché la questione che Lotito non ha capito è proprio qui nell’illusione alta e affascinante. 

    La vittoria è di uno non può essere di tutti, ma quando manca il fascino e l'identità scricchiola allora anche la qualità e i virtuosismi dei conti assumono un significato che priva i numeri del loro fascino arabesco, confinandoli a essere solo aride cifre. Qui secondo i laziali del quartiere Fleming o della sterminata galassia dei paesi che s'irradiano al di fuori della costellazione di Roma, non è in questione la virtù di una contabilità che è importante; ma è in discussione forte, il tratto ordinario che Lotito ha disegnato per la sua squadra. 

    Per questo il laziale ricorda ancora una delle sue pagine più epiche nella storia del club. I meno nove di Fascetti e Fiorini, di Camolese e Terraneo, degli spareggi di Napoli. Nel farlo vive con nostalgia e qualche eccesso nostalgico che poco produce però all'atto pratico e al dibattito.  

    Ma il suo cuore di tifoso disamorato è lì nell'essenza della lazialità, quel senso piratesco e anarchico degli 87.000 che impazzirono per il gol di Fiorini e per il suo tocco di punta, un artiglio dell'aquila che incise il tratto sentimentale di una fede anarchica che va di padre in figlio, come tengono a precisare con una festa i laziali nell'ultima agorà della loro emozione. Sentimento che Lotito non ha voluto e saputo vivere. 

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