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    Lippi in Cina:| 'Saluterò i capi del partito comunista'

    Lippi in Cina:| 'Saluterò i capi del partito comunista'

    Ha vinto scudetto e Coppa: "Prima delle vacanze passo a salutare i capi del partito comunista di Canton".
    Diario cinese di Lippi: "Il traffico, che incubo".
    «C’era da nominare il Politburo. Così il Paese si è fermato. Un miliardo e quattrocento milioni di persone, non quattro gatti».

    In che senso si è fermato?
    «Come le ho detto. Fisicamente. Per quindici giorni. La Cina è una nazione straordinaria. La consiglio a chiunque. Soprattutto agli allenatori italiani». Fruscio di sottofondo. Dal telefono cellulare precipita uno scroscio intermittente. La voce di Marcello Lippi arriva profonda - la cassa armonica dei fumatori di sigaro - le vocali gli cadono sorde dalle labbra. L’allenatore campione del mondo (Germania 2006), cinque scudetti con la Juve, una Champions, un’Intercontinentale e adesso un campionato e una Coppa cinese (doppietta con il Guangzhou Evergrande) alle undici di sera si accomoda su una poltrona di un hotel nell’isola di Sanya, una specie di Polinesia gialla. Marco Polo del pallone con un contratto da ventisei milioni di euro per due anni e mezzo di lavoro. È andato a predicare il verbo in una terra in cui il calcio è ancora un’esperienza embrionale pompata dai lingotti d’oro di imprenditori col cuore pubblico e il portafoglio privato. Dirigismo e capitalismo selvaggio. Eserciti in crescita di Berlusconi rossi benedetti dall’evoluzione in provetta del socialismo reale. Ma l’emancipazione milionaria non è riuscita a cancellare una patina di indelebile grossolanità. Un popolo deliziosamente pericoloso, la cui complicata esistenza contraddice la logica che ha reso possibile le conquiste secolari dell’Occidente in declino. «Sono arrivato il 17 maggio. Sei mesi fa. Il mio diario d’Oriente è incompleto e le mie sono solo impressioni. Ma capisco che se i cinesi si muovono tutti assieme - e sono in grado di farlo - possono fare quello che credono».

    Lippi, torniamo sul Paese che si ferma?

    «È cambiato l’organigramma del potere. Succede ogni dieci anni. È tutto programmato, ma fa impressione. Contava solo quello».

    Che cosa fa impressione?
    «Faccio un esempio?»

    Magari.
    «Campionato sospeso. Allora dico: potremmo recuperare un paio di partite, no?».

    Risposta?
    «Non se ne parla neanche. La Cina era impegnata a fare altro».

    Meraviglioso. Un posto dove il calcio conta come il due di picche.
    «Il calcio conta. Non quanto lo Stato, però. Niente è paragonabile al potere centrale. Qui si ha l’impressione costante che ogni cosa sia controllata dall’alto. Lamentarsi è inutile».

    Fa paura.

    «È un sistema. Con dei pregi e dei difetti. Ma funziona».

    Qual è stato il suo impatto con il Guangzhou?
    «Nella prima settimana mi sono trovato di fronte tre impegni. Due di campionato e uno di Coppa Campioni. Io e il mio staff ci siamo messi sotto a testa bassa. I giocatori ci hanno seguito».

    Robot ubbidienti. Il massimo per un tecnico.
    «Sono diversi da noi. Ma non sono automi. Danno il massimo. Ascoltano. Imparano. Crescono».

    Il singolo non conta. Conta l’obiettivo. Giusto?
    «In parte è vero. Negli sport individuali sono strepitosi. Gli manca un po’ di visione laterale. Io con loro lavoro molto sull’organizzazione, sull’aggressività, sul ritmo».

    La trattano come un marziano o come un maestro?

    «Sono stupiti di vedermi qui. Mi chiamano il Professore».

    La stella del suo gruppo, l’argentino Conca, guadagna quanto lei. 
    «Quei soldi li può prendere solo in Cina. Ma per vincere qui servono giocatori fatti in casa. Noi abbiamo sette nazionali. A Shangai, con Drogba e Anelka, sono arrivati undicesimi».

    La società massa che travolge l’individualismo barbaro degli occidentali. Nel calcio e nell’economia.
    «Qui hanno ancora tanta strada da fare. Ma la faranno».

    Quanta gente viene a vedervi la domenica?
    «Quarantamila persone. Sempre».

    Ma lei vive a Canton, 17 milioni di abitanti.

    «Un formicaio. A volte ti senti perso. E se sbagli gli orari sei finito. In ogni caso lo stadio è pieno. E per giunta splendido».

    È caldo il tifo?
    «Dipende. In casa del Liaoning abbiamo vinto 3 a 0 e la folla ci ha costretto a rimanere chiusi nello spogliatoio per quaranta minuti. In altre città passiamo quasi inosservati».

    Dalla Champions vi ha sbattuto fuori l’Al Ittihad.
    «E in Europa qualcuno ha scritto che rischiavo. Assurdo».

    Come è andata?
    «Al ritorno li abbiamo assediati. Vincevamo due a zero. Pali, traverse, gol sfiorati. Loro hanno fatto un tiro che è finito dentro con un rimpallo e ci hanno eliminato. Il pubblico ci ha applaudito entusiasta. E anche i giornalisti in sala stampa».

    Un altro mondo. 

    «Un mondo che apprezza il lavoro. E che ha visto i progressi. Al mio primo anno alla Juve ho vinto campionato e coppa Italia. L’anno dopo la Champions e l’Intercontinentale. Non dico che posso battere il Barcellona. Ma avere la meglio in Asia forse sì».

    Il suo padrone, Mr Xu, è l’ottavo uomo più ricco della Cina.
    «Persona squisita. Io vivo in uno dei suoi villaggi. Ci tiene a fare bene. E mi ha dato carta bianca. Palestra, campi di allenamento, terapie, mi occupo di ogni cosa».

    Ce l’ha internet in casa?
    «Ce l’ho. Non posso andare su YouTube, ma per le mie esigenze è più che sufficiente».

    Quando torna in Italia?

    «In vacanza la prossima settimana. Ma prima passo a salutare il sindaco. E i capi del partito comunista di Canton».
     


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