'Leo devi darci la coppa'
Buenos Aires è ancora sconvolta dalla retrocessione del River Plate, dalla violenza che ne è seguita, da questa specie di dramma nazionale che s'allunga come un'ombra sulla Coppa America che comincia domani e che la oscura, la minaccia. Ci sono ancora macerie dentro lo stadio Monumental, quello che ospiterà la finale, sbriciolato dalla rabbia di gente che adesso rovescerà le sue illusioni perdute addosso alle Selección, addosso alla pulce Lionel Messi, che per l'Argentina non è mai stato, o non è ancora, quello che invece è per il resto del mondo, e per il mondo di Barcellona in particolare. Ieri ricorreva il venticinquennale del trionfo maradoniano ai Mondiali del Messico, nel 1986: un quarto di secolo è ormai un'eternità. E dall'ultimo successo della nazionale albiceleste (Coppa America del 1993) di anni ne sono passati 18, tantissimi: dunque non è soltanto Messi, a osservare il digiuno, ma è una nazione intera che, inspiegabilmente, abbina con puntuale regolarità campioni formidabili a delusioni incalcolabili.
In Argentina c'è un senso di frustrazione erosivo, la rivalità con il Brasile va trasformandosi in gelosia per l'evoluzione (economica, sociale, politica e di conseguenza anche calcistica dei vicini) dei cari nemici. "Noi usiamo sempre e solo il cuore, loro adesso anche la testa" dicono a Buenos Aires, arrivando addirittura al punto di invidiare la razionalità agli irrazionali brasiliani. Più della metà della popolazione
argentina tifa per il River o per il Boca, dunque di questi tempi vive il calcio o con molta sofferenza o con poca allegria, perché il Boca non retrocede ma langue, e non è detto che sia peggio. E la Selección non dà consolazioni. Su Messi e sulla Nazionale si sta dunque rovesciando una pressione pazzesca, che rischia di diventare ossessiva perché il dovere di vincere è davvero un'ossessione e perché è considerato inammissibile che la Pulce non abbia ancora fatto nulla per la patria anche se in questo presunto "nulla" ci sono già due Mondiali giocati ad appena 23 anni (Lionel è il più giovane argentino della storia che abbia partecipato e segnato in un Coppa del Mondo), una medaglia d'oro olimpica a Pechino nel 2008 e un secondo posto in Coppa America del 2007, manifestazione che tra l'altro nemmeno Mardona ha mai vinto, neppure quando la giocò in casa e oltretutto nei suoi anni d'oro: nel 1987, venne eliminato in semifinale dall'Uruguay di Francescoli. Naturalmente, fu un dramma nazionale.
La Selección è chiusa nel centro federale di Ezeiza, a due passi dall'aeroporto, dove il cittì Sergio Batista detto El Checho l'ha portata in ritiro fin dall'8 di giugno: l'attesa è uno stillicidio e la vittoria è una necessità, soprattutto se chi perde è costretto a barricarsi in casa per difendersi dallo sdegno popolare, come sta accadendo in questi giorni a quelli del River Plate. Batista ha sfrondato la velleitaria Argentina di Maradona, conservando soltanto undici dei ventitré giocatori che Diego aveva portato in Sudafrica. Però ne ha voluti altrettanti di quelli che vinsero, proprio con Batista alla guida, l'Olimpiade di tre anni fa e Messi è uno di loro, Messi è tutti loro, Messi è una generazione intera. "Se dovessi mai lasciare il Barcellona, sarà solo per tornare in Argentina" ha promesso la Pulce, cercando di offrirsi a una Nazione che dopo tutto non lo ha né svezzato né cresciuto, ma soltanto scoperto con meraviglia quando ormai era un giovane ragazzo di Barcellona, o già un piccolo uomo. "Sono sicuro che otterrà i riconoscimenti che tutti si aspettano", dice Batista del suo numero 10. "Avere Messi è una fortuna, ma oltre a lui serve una squadra. E io devo tenermi pronto un piano B, perché l'Argentina deve esistere anche senza Messi". Anche per questo sono stati richiamati Zanetti e Cambiasso, che hanno il carisma per togliere un po' di mesi dalle spalle di una Pulce.