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    Laziomania: un ricordo privato e inopportuno di Miro Klose

    Laziomania: un ricordo privato e inopportuno di Miro Klose

    Lo so che non sembra opportuno a 24 ore da una gara importante, che certifica, come quella contro il Napoli, fermarsi sulla soglia di un ricordo piccolo. Una volta mi ha chiesto (ci pensate, parlava, si fermava a parlare, eppure era Miroslav Klose, il celebrato in tutto il mondo), se mi piacesse il football americano. Si, si, certo (mai vista neppure una partita). Quella notte si sarebbe giocato il Super Bowl, la narrativa americana per eccellenza, eccessivo, perfino pacchiano, sfarzoso. Che potenza che hanno, che forza. Poi le porte dell'aeroporto si sono aperte, hanno ingoiato Klose con il suo trolley, lasciandomi boccheggiante. Era la prima volta che Miro Klose mi rivolgeva la parola. E dire, che proprio sulla sua strapotenza, sulla sua forza, si sono spesi fiumi di inchiostro. Sulla sua intelligenza che gli permetteva di intravedere più che vedere corridoi dove infilarsi, o di percepire più che capire dove sarebbe finito il pallone. Quello che non si poteva insegnare, la scienza inesatta dell'istinto primordiale del gol, lui lo praticava con durezza ogni giorno, come se fosse inesauribile preghiera ad un dio perennemente in agguato, goloso e geloso. Quello che poteva insegnare, Miroslav lo insegnava. Con la faccia seria, e magari un sorriso di fondo, a rendere più semplici movimenti complessi che per lui forse erano diventati natura, e per altri (i piccoli Keita, o i suoi compagni di reparto più maturi), erano materia di apprendimento. Lo insegnava a gesti, sacca dei palloni sulle spalle, come un Primavera qualsiasi, lontano dal calcio egotico di Cristiano Ronaldo, un pochino ritroso davanti ai riflettori, quasi fossero più una condanna. Per stupire mezz'ora basta un libro di storia, cantava De André. Lui cercò di riscrivere la Treccani a memoria. A lui i record non interessavano perché finissero in prima pagina sul Corriere dello Sport (con tutto il doveroso rispetto), ma perché fossero scritti per sempre su tutti gli annali, su tutti i siti, su tutti i fottuti libri di storia. A metà tra per sempre e un sorriso ironico, Klose all'ultimo scatto bruciava tutte le sue residue energie, andava oltre, recuperava le ultime calorie utili, gli ultimi frammenti di forza, e oltre. Ah, era solo un allenamento. O era l'ultima partita del mondo, ma che importa. Fa lo stesso, per lui era lo stesso. Si stupì molto, dopo il gol del derby al '93, che fece fare a Reja uno scatto pazzesco dalla sua panchina, che i tifosi della Lazio, i suoi ultimi tifosi, si fossero attaccati così selvaggiamente a lui. Che lo avessero elevato ad un rango faraonico, che un postino si fosse perfino inchinato a baciargli il piede. E una volta mi ha chiesto se mi piacesse il football americano. E ho detto di sì, certo, ma non sapevo di cosa parlavo realmente. Forse vale lo stesso per Miroslav Klose. Ora ci sforziamo di celebrarlo degnamente, ma non sappiamo davvero, in fondo, di cosa parliamo realmente. Forse lo capiremo davvero tra 50 anni, chi ha giocato veramente con la S.S. Lazio, nella nostra piccola Serie A, partendo da un ricordo piccolo, o dai suoi ricordi che durano per sempre.

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