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Laziomania: filosofia del 26 maggio
Prima di altre aggiunte posticce al vocabolario (il termine petaloso non lo citiamo per pudore) è stato sicuramente da quel giorno inserito d'ufficio il concetto, ancora in bilico tra Kant e Hegel, di "alzare la coppa in faccia". A Roma è diventato termine d'uso, come "posso offrirle un caffè", o "buongiorno, come sta, a casa tutto bene?". Per un periodo, piuttosto lungo, che dura ancora, si è voluto con forza sottolineare come un gesto che accade ogni anno, la consegna di una coppa nazionale nelle mani di un capitano di squadra italiana, con la successiva elevazione al cielo del trofeo, non fosse mera banalità, o formalismo vuoto. Ma fosse, al netto di qualsiasi umiliazione successiva o precedente, di qualsiasi superiorità tecnica, di qualsiasi perfino strapotere, un gesto unico, irripetibile, perfino definitivo. C'è chi si è spinto perfino nel talebanesimo assunto del "il resto dei derby sono solo amichevoli", con il conseguente ascetismo e la rinuncia dei beni in nome di una vittoria che si ritiene abbia tutti i crismi di un'eterna, sicura, profonda nottata di piacere.
E chi l'ha vissuta, quella notte, ne ricorda i festeggiamenti, le vie piene, i cori, il locale al centro, qualcuno perfino si ricorda di Vladimir Petkovic. Stringeva la mano a tutti, quando entrava in una stanza, Vladimir Petkovic, come se avesse il sacrosanto dovere, ogni mattina, ogni giorno, di tributare un segno di rispetto a chiunque fosse presente. Vale molto, l'uomo Petkovic. Mentre ora, anche solo a leggere i giornali, ci si preoccupa solo di quello che forse, un giorno, la Lazio dovrà saldargli, dopo un iter processuale piuttosto lungo. Dopo il 26 maggio qualcosa è cambiato, ma alcune cose, alla Lazio rimarranno sempre le stesse.