La musulmana Fatima e il basket: almeno stavolta non era discriminazione religiosa
Fatale che, partendo da una questione di mera applicazione delle regole, la vicenda venisse immediatamente trasformata in un sospetto caso di discriminazione religiosa. Ciò che da subito è parsa interpretazione esagerata. L'arbitro che ha negato a Fatima Habib il permesso di giocare si è limitato a applicare il regolamento di una disciplina sportiva, che per definizione è un corpus di norme di portata universale e comprende anche le prescrizioni sull'abbigliamento di gioco. Inoltre, il fatto che nel giro di una settimana sia stata trovata una soluzione di compromesso indica che in nessun momento vi sia stata volontà di discriminare.
Aggiungiamo che la griffe ben visibile sul copricapo della tuta autorizzata fa scaturire qualche cattivo pensiero. Infine, sarà stato forse un caso di arbitro troppo zelante? Può darsi. Ma quello zelo è comunque servito a dimostrare che lo sport risponde a valori di inclusività, a patto di mantenere dei principi la cui applicazione deve valere per tutti indistintamente. Nel caso di Fatima Habib, lo sforzo di includere è stato condotto a patto di determinare che la ragazzina giochi con un equipaggiamento agonisticamente consono, non d'intralcio per se stessa e le avversarie. Dunque, una decisione rispettosa dell'individuo quanto delle regole e della credibilità di gara.
Un'ultima annotazione, a proposito del sospetto di discriminazione religiosa che è circolato per qualche giorno. Viviamo tempi di odiose chiusure, in cui molte forme di diversità vengono trasformate nel capro espiatorio delle nostre paure. Ma proprio per questo motivo sarebbe il caso di non esagerare, nell'individuarne dove non ve ne sono. Ché altrimenti si rischia la banalizzazione. E banalizzare le discriminazioni, oggi, sarebbe un errore che proprio non possiamo permetterci.
@pippoevai