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    La Juve insegna, conta la mentalità. Il Napoli ha sbagliato, le chiacchiere portano alla sconfitta

    La Juve insegna, conta la mentalità. Il Napoli ha sbagliato, le chiacchiere portano alla sconfitta

    • Matteo Quaglini
    E’ stato un campionato conservatore, come sempre nel calcio italiano. L’ha vinto, con grande merito, la Juventus per la settima volta consecutiva avvalorando ancora una volta come sia la mentalità più che il gioco a permettere di ottenere la vittoria nel football nostrano. Juventus-Napoli e Inter-Juventus sono state le partite manifesto di questa teoria imprescindibile. Un minuto dopo la vittoria nel catino di “Madama” Napoli e il Napoli hanno creduto nella vittoria, quasi intravedendola come ormai inevitabile. Sbagliato. Atteggiamento mentale sbagliato perché quando si vuole raggiungere l’obiettivo, la concentrazione e l’attenzione devono essere massime con tutte le forze utilizzate per isolarsi dalle distrazioni proprie e da quelle volute ad “arte” dagli avversari e lì andare dritti fino alla vittoria.

    Non è “filosofia” del calcio è pragmatica pura e dura. La Juventus conosce questo sistema mentale alla perfezione e ne approfitta con scientifico cinismo, mentre il Napoli bello e fascinoso di Sarri dopo il “caso Orsato” a San Siro nel derby d’Italia, si è sciolto a Firenze sotto i colpi “argentini” del Cholito dimostrando fragilità e paura.
    Quando Mourinho nella stessa Firenze, otto anni fa, andò con i suoi pretoriani sotto di un punto alla Roma, nel rientrare nello spogliato disse: Signori mancano quattro partite, quattro vittorie allora e siamo campioni. Non è magia qualunquista è, appunto, mentalità. Ed è il tratto che più conta nel calcio italiano, soprattutto in quello di oggi povero, rispetto al passato,  di gioco e campioni.

    Il Napoli, dopo Inter-Juventus, ha fatto come i marescialli di Napoleone a Waterloo, ha cominciato a parlare e a pensare alla disfatta dando ancora una volta ragione all’Imperatore: le chiacchiere portano alla sconfitta, sempre. Anche la lotta Champions è stata conservatrice. Il Milan non ha partecipato a conferma che il mercato si fa tecnicamente e non con le figurine. Ma Gattuso ha lavorato bene costruendo una squadra, normale ma con un senso. Merita di continuare per rilanciare gli ex-vincenti del calcio italiano.

    Per le posizioni che contano: Roma e Inter, rispettivamente, terza e quarta e Lazio fuori all’ultimo tuffo. Ma è la squadra di Inzaghi quella che più avrebbe meritato la qualificazione: per il suo gioco nuovo e diverso nel contropiede lungo, per la qualità tecnica di giocatori come Luis Alberto, Milinkovic-Savic, Immobile, Leiva, Felipe Anderson, per il miglior attacco nel campionato della difesa per eccellenza.
    Come sempre i nuovi, gli eretici, spaventano e la questione Var molto ha inciso, non ieri, ma nel percorso generale di una squadra che avrebbe meritato più di un’Inter piatta per gran parte della stagione, legata troppo e solamente a Icardi e alla speranza che portavano i suoi gol.  Spalletti passa senza merito e per alcuni dettagli che la Lazio nella partita cruciale non ha saputo gestire bene: l’espulsione di Lulic, il gol di Vecino in mezzo a quattro laziali in area, la poca lucidità nel chiudere, sul 2-1, la partita.

    La Lazio però rimane l’unica vera novità tecnica del campionato, la più riuscita, la più interessante in grado di nobilitare pure il più conservatore dei moduli, il 3-5-2. Si qualifica invece la Roma per il quinto anno consecutivo sul podio della serie A come non era mai successo nella sua storia, nemmeno ai tempi dell’epopea d’oro di Viola e Sensi. Un vento nuovo sembra spirare. Il vento di una mentalità che la Champions ha cambiato. La semifinale, le 23 partite senza prendere gol, l’aver battuto a Roma tutti grandi d’Europa, l’aver eliminato l’Atletico Madrid poi ancora campione nel continente, hanno messo le basi per risolvere il problema atavico: la mentalità. E torniamo, anche qui, al cuore del calcio italiano.

    Ora sta a Monchi, che ha portato mentalità internazionale nella campagna europea, farlo in quella italiana. Farlo però senza tergiversare, senza plusvalenze, senza la retorica del cammino di passo in passo. Questo è il momento della verità per la Roma, deve giocare per vincere non più per competere. La lotta salvezza è stata avvincente fino alla fine e drammatica. Il Benevento già spacciato ha lottato con cuore e rigore contro tutti gli avversari inguaiando, per un attimo, Milan e Udinese nei rispettivi ambiti: la salvezza e l’Europa. Il Verona ha giocato lontano anni luce dalla sua tradizione sportiva, quasi dando l’impressione di essere per la prima volta in serie A. 

    Tra Crotone e Spal si è salvata la squadra di Semplici, ma Zenga e i ragazzi di “Calabria” avrebbero meritato di più per il cuore e il senso di appartenenza mostrato. È stata una lotta salvezza come sempre dura, diretta, aspra, senza colpi ma con tanta quantità complessiva. La Spal l’ha fatta sua con la semplicità dei concetti, la capacità di mettere tutti in difficoltà in casa, grandi squadre comprese, e la linea semplice del gioco che in Italia paga sempre.

    In generale niente di nuovo sotto il sole come avrebbe titolato un vecchio film. Il gioco, manifesto di Lazio e Napoli, cede ancora al pragmatismo. I dettagli tattici contano ancora più di quelli tecnici. Si segna molto, gli 0-0 quasi non esistono più, ma il gioco offensivo è ancora lento. In questo quadro, il grande squalo bianco chiamato Juventus domina e razzia i mari dall’alto di una superiorità totale. Chi proporrà un grande gioco d’attacco unito però a una mentalità tipo Atletico di Simeone, chi costruirà un centrocampo tecnico, chi velocizzerà l’andatura del gioco d’attacco per segnare anche a difese schierate, potrà attaccare il grande predatore dello scudetto. E vincerlo. Siamo in attesa di novità e progresso. Fiduciosi.

    @MQuaglini
      
     

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