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    La complicata scelta del nuoto: stop alle transgender nelle gare femminili

    La complicata scelta del nuoto: stop alle transgender nelle gare femminili

    • Pippo Russo
      Pippo Russo
    Una decisione complicata perché avrebbe comunque scontentato qualcuno. Anzi, qualcuna. L'ha presa la federazione internazionale del nuoto (Fina) e riguarda la possibilità che le atlete transgender prendano parte alle gare delle categorie femminili. Una possibilità che da qui in avanti, nelle piscine, sarà pressoché negata.

    Con un voto espresso favorevolmente dal 71% dei 152 partecipanti al congresso straordinario che si tiene a Budapest, è stata assunta una decisione che prevede eccezione soltanto nel caso in cui la transizione da maschile a femminile avvenga prima che venga raggiunto il secondo livello di sviluppo nella Scala di Tanner (che si approssima all'età di 12 anni). E poiché un provvedimento del genere ha necessità di essere presentato come inclusivo anziché includente, ecco che la federazione internazionale guidata dal kuwaitiano Husain Al-Musallam prepara una svolta che conduca verso l'istituzione di una terza divisione di gare oltre alla maschile e alla femminile, quella che verrà definita 'open' perché aperta alla partecipazione di atleti e atlete il cui genere sessuale sia diverso rispetto a quello biologico di nascita.
    Supportato da un documento scientifico di 34 pagine, il voto del congresso straordinario Fina giunge sull'onda delle polemiche generate dai successi di Lia Thomas, atleta trasngender Usa, in occasione dei campionati universitari dello scorso febbraio. In quella circostanza lo strapotere agonistico dell'atleta che ha compiuto la transizione da maschile a femminile ha provocato non soltanto il dispetto delle avversarie ma anche le perplessità degli osservatori. Di sicuro si è diffusa la consapevolezza che non fosse più rinviabile una decisione sul tema. Anche perché in altre discipline sportive la questione delle atlete transgender è stata avvertita come un'urgenza da risolvere, sin dal giorno in cui il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha aperto alla partecipazione di atleti transgender alle gare olimpiche. Era gennaio 2004, pochi mesi prima delle Olimpiadi di Atene, e l'esecutivo dei Cinque Cerchi consentiva a atleti e atlete transgender di scegliere se gareggiare nella divisione maschile o in quella femminile.

    Da allora le polemiche sul tema si alimentano continuamente, vedendo contrapposti coloro che riscontrano un forte squilibrio competitivo nelle gare femminili in cui sono impegnate atlete trans, e coloro che invece difendono tale squilibrio competitivo come un prezzo da pagare per garantire a queste atlete il diritto a gareggiare. Alla cura di quest'ultimo aspetto la Fina ritiene di poter provvedere con l'inaugurazione di una categoria open, cui possano partecipare atleti e atlete che hanno compiuto la transizione. Una categoria che però, come opportunamente rilevano i critici della decisione appena assunta dalla Fina, rischia di essere un ghetto. Considerazione per niente peregrina, poiché almeno per il momento non esiste, in qualsiasi disciplina, un movimento di atleti e atlete transgender rilevante per quantità e qualità. E dunque, quelli che per talento spiccano al punto tale da poter gareggiare con le atlete o gli atleti più forti in ogni disciplina rischiano di non trovare una contrapposizione agonisticamente valida. Finiranno per gareggiare praticamente da sole/i.
    Da qualunque parte la si giri, la questione è estremamente complessa e non porta in nessun caso a una soluzione indiscutibilmente valida. Un punto di equilibrio sarà molto difficile da trovare. Ma la sua ricerca, negli anni a venire, sarà una sfida ineludibile per il mondo dello sport.

    @pippoevai

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