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    L'addio al calcio di Ozil, il più brasiliano dei tedeschi che la Germania non ha mai saputo amare

    L'addio al calcio di Ozil, il più brasiliano dei tedeschi che la Germania non ha mai saputo amare

    • Furio Zara
      Furio Zara
    Si ritira il più brasiliano dei tedeschi, uno degli ultimi 10 come li abbiamo catalogati per tanti anni - quando il 10 inventava calcio - un panda che ha saputo riassumere nel suo gioco fantasia e geometrie, irrorando di modernità un modo di stare in campo antico. Mesut Ozil ha dato l’addio al calcio. Ha 34 anni, ha messo in fila diciassette stagioni da professionista, ha giocato ad alti livelli in Bundesliga, Liga e Premier League, ha diviso il suo miglior decennio (2010-2021) tra Londra (Arsenal) e Madrid (Real), ha disputato tre Mondiali (Sudafrica 2010, forse i migliori dal punto di vista personale, Brasile 2014 e Russia 2018), si è laureato campione del mondo con la Germania più forte degli ultimi cinquant’anni e ha messo in bacheca una quindicina di trofei. Insomma: Ozil può dirsi ampiamente soddisfatto della sua brillante carriera.

    E’ stato un 10 puro, trequartista più che mezzala, dotato di un dribbling secco e di una visione periferica straordinaria (molti i suoi assist no look), sostenuto da un fisico d’altri tempi, per niente pompato, anche se fatto col fil di ferro. La gioia di giocare a pallone gli deriva dalla sua origine turca, la disciplina invece l’ha imparata nei settori giovanili tedeschi. L’eleganza, il tocco di palla, le soluzioni di gioco mai banali. Ha iniziato nello Schalke 04, ha chiuso - ma senza lasciare il segno - con l’Istanbul Basaksehir allenato dall'ex interista Emre Belözoğlu. In mezzo Werder Brema, Real Madrid, Arsenal, Fenerbahce. Che gran bel giocatore è stato, Ozil. Mancino, usava il piede come una fionda. Pezzo forte del suo repertorio: l’assist. Però 4-5 gol a stagione li ha sempre fatti (addirittura 23 nelle 92 presenze in Nazionale, praticamente un gol ogni quattro partite) con il picco delle 9 reti segnate nell’ultima anno a Madrid.

    C’era Mourinho in panchina, lo spogliatoio dei Blancos era una polveriera. C’è un aneddoto che merita di essere raccontato. Nell’intervallo di una partita di Liga, Mou affrontò a muso duro Ozil. E lo accusò: “Non ti stai sacrificando per la squadra”. Ci andò giù pesante: “Sei un bambino viziato”. E ancora: “Non abbiamo bisogno di te, vai a farti la doccia”. Ozil, furioso e livido di rabbia, non disse nulla, gettò per terra la maglia e se ne andò. Due giorni dopo, contattò l’Arsenal. Questo è stato Ozil, figlio di immigrati turchi a Gelsenkirchen, ultimo di quattro fratelli, timido e solitario, gli occhi a palla, lo sguardo assonnato e una vita - fuori dal campo - che ha spesso fatto discutere.

    Si è spesso esposto, creando casi diplomatici. Una volta criticò apertamente la comunità musulmana della Cina, accusando il paese di persecuzione nei confronti della popolazione uigura (a minoranza islamica) nella regione nord-occidentale dello Xinjiang; tanto che la tivù di stato cinese rifiutò di mandare in onda il big match di Premier, la sfida tra l’Arsenal, la squadra dove giocava all’epoca, e il City. Qualche tempo fa si fece fotografare con il contestato presidente turco Erdogan, suo amico personale, accusato della repressione curda e di svariate atrocità. Anche quella volta: caso diplomatico, con la Merkel costretta ad intervenire personalmente. E quando ha dato l’addio alla Nazionale tedesca ha spiegato di aver sentito “razzismo e mancanza di rispetto”. Non è mai stato troppo amato dai tedeschi, questa è la verità. E nemmeno dai suoi datori di lavoro. Alcune recenti intercettazioni hanno portato alla luce i commenti velenosi di Florentino Perez nei suoi confronti, quando ruppe col club e se ne andò all’Arsenal. “Non era un buon professionista. Era ossessionato dalle donne. Usciva la notte con le sue amanti e stava senza dormire per ore e ore”. Ok, la continuità di rendimento non era il suo forte. Ma quando gli si accendeva la lampadina, era un piacere vederlo giocare.

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