Keita no, Diawara no: dove va il calcio?
Il mondo sta cambiando, quello del calcio si adegua. Una volta c’era un Moggi che poteva permettersi di imporre regole non scritte, oggi non ci sono restrizioni che tengano: se un giocatore decide che è venuto il momento di cambiare aria, in un modo o nell’altro lo fa. Sfruttando la comunicazione social, utilizzando ogni strumento a disposizione.
Prendiamo i due recenti “no” pronunciati seppur con modalità e motivazioni diverse da Amadou Diawara, 18 anni, centrocampista della Guinea e del Bologna, e da Diao Keita Baldé, 21 anni, attaccante della Lazio nato in Spagna ma senegalese. Entrambi hanno deciso di non presentarsi in ritiro, venendo meno agli impegni contrattuali e ingaggiando una battaglia diplomatica con i rispettivi club di appartenenza che – con ogni probabilità – non si risolverà se non con una doppia cessione, verso lidi più ambiti. Inevitabili le voci che già sono cominciate a circolare attorno ai loro nomi: Diawara, che intanto è tornato dalla famiglia in Guinea, sarebbe un obiettivo della Roma, mentre per Keita si parla di un contatto con la Juve ma anche Atletico Madrid, Monaco e Inter sarebbero in lista d’attesa.
Su calciomercato.com si celebra in questi giorni il ventennale di attività che coincide anche con la ricorrenza della legge Bosman, l’evento epocale che diede uno scossone alle vecchie abitudini e alle regole del calcio. Uno scossone con conseguenze graduali perché questo è un ambiente chiuso, tradizionalista, impermeabile ai cambi di direzione. Ma alla lunga molto è stato concesso.
Ora è la volta dei “mal di pancia” dei giovani rampanti. Oltre a Keita e Diawara, anche un Felipe Anderson (sempre Lazio) che vuole le Olimpiadi con il Brasile a costo di rompere con i biancocelesti (stessa cosa in Francia per l’altro brasiliano Marquinhos con il Psg) e possiamo aggiungere anche un meno giovane come Icardi, che parla attraverso le sembianze accattivanti di Wanda Nara per rivendicare adeguamenti contrattuali. Tutti scontenti, tutti orientati a ottenere ciò che possono ottenere: il meglio. Del resto, in un mercato globale dove da un giorno all’altro può arrivare l’offerta milionaria targata Cina, tutto è possibile.
Ecco perché conta sempre di più la volontà del giocatore, mediabile fino a un certo punto dall’agente di turno. Perché per far prima l’agente diventa la compagna soubrette oppure un fratello o meglio ancora il papà. Il mercato condiziona tutto, e non è che il calcio rappresenti il modello sbagliato, l’esempio da non seguire. In fondo non sono i calciatori i più pagati al mondo, più in alto di loro nelle graduatorie dei più ricchi ci sono le stelle del cinema o della musica, poi i paperoni degli sport americani.
La questione allora è un’altra, come spesso accade cozza soprattutto con l’arretratezza del sistema italiano. Il modello Lotito, ad esempio, avrà pure qualche pregio (il taglio netto dei rapporti con la tifoseria violenta, un atto coraggioso che assume più valore alla luce dell’inchiesta di questi giorni sui biglietti gestiti allo Juventus Stadium direttamente della curva), ma non può certo reggere il confronto in una dimensione internazionale. Si parla spesso di Nba: quello è un modello vincente ma ha regole ben precise, impossibili da eludere. Il calcio italiano invece va avanti a tentoni. Che i casi più eclatanti abbiano puntualmente coinvolto la Lazio non è un caso (non dimentichiamo Bielsa), serve al più presto una presa di coscienza e un’azione immediata per un sistema calcio più organizzato ed efficiente. Che non sia vittima di risentimenti (giusti o meno) dei Diawara o Keita di turno.