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    Italia, oriundo non è una parolaccia

    Italia, oriundo non è una parolaccia

    • Marco Bernardini
    L’ultimo in ordine di tempo era stato Camoranesi. Giocava nella Juventus e ricordo benissimo che, in caso di forfait forzato per infortunio o squalifica, i suoi compagni di squadra non esitavano ad ammettere che l’assenza non era soltanto importante ma fondamentale per l’economia del gioco bianconero. Marcello Lippi la pensava allo stesso modo, tant’è che una volta  diventato cittì azzurro si affrettò a inserirlo nel gruppo e a portarlo con sé in Germania. Vincemmo quel mondiale. Popporopopopopoooo…. Mauro Camoranesi era il primo a tornare sulla scena della nazionale italiana di una tribù molto particolare in voga negli anni Cinquanta-Sessanta. Quella degli oriundi
    Termine innocente e per nulla volgare che deriva dal latino e che significa “origine” nel senso di provenienza per sangue e per dna. Una parola che, ad un tratto, per il gioco del calcio sembrò voler diventare una parolaccia perché chi ne era “portatore sano” mai e poi mai avrebbe potuto indossare la maglia della nazione che aveva generato i suoi nonni o bisnonni. Era l‘idea del pallone incontaminato e autarchico che, ruffianamente e farisaicamente, ammetteva nei club campioni (e anche pippe) di etnie diverse ma che rifiutava calciatori nati fori dai confini segnati dal Brennero all’Etna.

    Oddio, ci fu un periodo nel quale la nostra nazionale era talmente malmessa che pur di trovare un rimedio vennero convocati e fatti giocare anche gli oriundi. Altafini, Sivori e Maschio per esempio. Un italo-brasiliano e due italo-argentini. In Cile ci fecero neri egualmente a suon di gol, sputi in faccia e pugni volutamente ignorati dall’arbitro. Sicchè, subito dopo, si tornò alla filosofia autarchica per la serie donne e buoi (e anche calciatori) dei paesi tuoi. La parola oriundo tornò ad essere una parolaccia da non dover pronunciare. Almeno non in Italia. Perché, sicuramente con una dose minore di ipocrisia, in Germania, in Francia e in Spagna per il calciatore che viene impiegato con la maglia delle rispettive nazionali dai tempi di Puskas e Di Stefano a quelli di Zidane, Eusebio e Diego Costa viene usato il termine “integrati”.

    Apriti cielo quando Antonio Conte comunicò, a marzo, che nella lista dei suoi possibili convocati in Francia c’erano Eder e Vazquez. I “puristi” del lessico pallonaro di casa nostra, guidati da un Roberto Mancini scatenatissimo (lui che in squadra forse non avrà manco più il magazziniere italiano), intrapresero una crociata contro lo straniero rispolverando il termine “oriundo”. Sicuramente oggi, dopo l’impresa di Eder alla “Roberto Baggio” in azzurro, tornerà a scrivere o a pronunciare la vecchia parola. Vada sereno e anche orgoglioso il mezzo sangue brasiliano. Oriundo non è più un insulto.

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