Il presidente dello Sporting Clube de Portugal: 'I fondi sono il male del calcio'
Cominciamo dalla stretta attualità. La sua squadra è in piena volata contro l’eterna rivale della capitale. Una sfida dura ed esaltante, che comunque vada a finire lascerà in eredità un dato: lo Sporting è tornato, e in modo consolidato, ai vertici del calcio portoghese. A cosa si deve questo risultato?
"All’inizio della stagione avevo detto che questa sarebbe stata una grande stagione. Abbiamo rafforzato la squadra rendendola più solida, e i risultati ci danno ragione. Lo stadio di Alvalade è sempre esaurito o quasi. Secondo me siamo dentro una nuova éra per lo Sporting, quella che io chiamo l’Onda Verde. E soprattutto stiamo mantenendo le promesse che avevamo fatto tre anni fa. Avevamo detto che nei limiti del possibile avremmo mantenuto intatta la squadra. Vogliamo continuare con questa politica, per cui rinnoviamo i ranghi senza perdere i migliori giocatori. Tutto ciò sta rivivificando l’orgoglio sportinguista, ed è per questo che parlo di Onda Verde. Negli ultimi vent’anni lo Sporting ha vinto soltanto due campionati. Due vittorie che hanno dato grande gioia ai nostri tifosi, ma che sono state seguite da lunghi digiuni. Questo aveva intristito i nostri tifosi, ma non ha mai messo in discussione il loro attaccamento ai colori. I tifosi dello Sporting Clube de Portugal sono estremamente leali. Però la passione e l’orgoglio sono due cose diverse. E quando ho iniziato il mio mandato da presidente ho insistito su questo aspetto: fin dall’inizio ho voluto restituire ai tifosi il Grande Sporting. Cioè, far passare il tempo in cui la gente diceva “andiamo a vedere la partita dello Sporting”, e far tornare quelli in cui andava allo stadio mio padre e la frase era “andiamo a vedere quanto vincerà oggi lo Sporting”. Sento che adesso la nostra gente prova questo orgoglio. Abbiamo già ottenuto l’accesso diretto alla fase a gironi di Champions League, ed è la seconda volta in tre stagioni. Adesso la nostra squadra, la nostra dirigenza, il nostro allenatore (che abbiamo ingaggiato dopo che aveva vinto gli ultimi due campionati) sono visti come un gruppo di persone che agiscono con la massima capacità di perseguire un obiettivo. In questo senso la stagione in corso è stata decisiva, perché la cosa più difficile da ottenere in situazioni come la nostra è quella di cambiare mentalità. E questa mentalità è cambiata innanzitutto presso i tifosi, che hanno imparato a essere esigenti come è giusto siano i tifosi di un grande club".
Parliamo un po’ del suo profilo da presidente e del suo stile nell’interpretare il ruolo. Lei è spesso un “presidente contro”, che non si sottrae alla battaglia. Questo suscita reazioni contrastanti presso gli appassionati portoghesi di calcio. E invece come viene percepita la figura di Bruno De Carvalho dal mondo istituzionale del calcio portoghese? E da altre sfere della società portoghese, come per esempio quella della politica?
"Tutti in Portogallo sanno che sin da ragazzo volevo essere presidente dello Sporting. Per l’esattezza, da quando avevo 6 anni e per la prima volta mio padre mi portò a vedere una partita dello Sporting. E quando finalmente ho avuto l’opportunità di esserlo, ho interpretato il ruolo con l’ambizione di fare la differenza, di lasciare un segno, come ho provato a fare in ogni campo nel quale ho operato. Io ho 44 anni, e mi sono laureato quando ne avevo 21. Da allora aspetto ancora di celebrare la mia festa di laurea, perché non ne ho mai avuto il tempo. Sin dal giorno dopo ho cominciato a lavorare. Sono fatto così, ogni volta che raggiungo un obiettivo devo raggiungerne un altro. Quando sono arrivato alla presidenza dello Sporting mi sono trovato a guidare una società che allora aveva 106 anni di storia, ma anche vicina alla bancarotta e con una comunità di tifosi molto ampia (3,6 milioni di persone) ma anche triste, quasi rassegnata. Mi sono trovato a dover decidere come cambiare tutto questo in pochi mesi, perché quello era il lasso di tempo in cui era concesso far cambiare le cose: non anni, ma mesi, se non addirittura settimane. Ma questa situazione di pericolo è stata la premessa per imprimere un cambiamento radicale. Quanto al rapporto con le istituzioni del calcio portoghese, c’è stato un cambiamento anche su questo versante. Per un lungo periodo anche presso istituzioni calcistiche del nostro paese era diffusa un’immagine dello Sporting come club “simpatico”. E io non so proprio cosa significhi “club simpatico”. O anche ci dicevano che siamo “un club molto importante per il calcio”, cioè un modo elegante per dire che quel club non conta niente. E pure da parte dei media c’era un atteggiamento analogo. Ci dedicavano abbastanza spazio perché abbiamo pur sempre 3,6 milioni di tifosi, ma anche per loro eravamo “simpatici”, così come lo eravamo per le tifoserie avversarie. Invece le banche, semplicemente, ci dicevano che eravamo vicini alla bancarotta. Quando sono arrivato lo Sporting aveva molti creditori alle porte, soprattutto fra i fornitori. Ebbene, quando sono entrato in carica ho assunto tutti questi problemi come parte del mio ruolo di presidente, ma al tempo stesso ho voluto che tutta la comunità sportinguista a partire dai dipendenti del club tornasse a pensare in grande. Il messaggio era che noi siamo il Grande Sporting, non vogliamo essere una squadra simpatica con tifosi rassegnati. E questo messaggio ha avuto un grande impatto anche all’esterno, non soltanto nella comunità sportinguista. Questo cambiamento ha comportato pure che gli avversari dello Sporting contrastassero questo mio modo di essere che è anche il nuovo modo di essere dello Sporting. Ciò che ha portato il club a essere di nuovo rispettato sia in Portogallo che all’estero, come ha dimostrato il secondo congresso The Future of Football. È per tutto ciò che io non cambierò il mio profilo né il mio stile di comunicazione".
Però in tutto questo c’è una controindicazione. Un paio di giorni fa le ho sentito dire che se lei smette un attimo di essere “Bruno De Carvalho il battagliero”, e prova a fare un ragionamento pacato, i media non le danno il risalto dovuto. Come se ne viene fuori?
"Guardi, ho imparato che i media sono innanzitutto un business. E non lo dico con malizia o con volontà di stigmatizzare. Intendo dire che la stampa è inquadrata dentro aziende editoriali che devono confrontarsi quotidianamente col mercato. E per farlo devono offrire ai loro utenti qualcosa che gli utenti siano disposti a comprare. In questa condizione è ovvio che il Bruno De Carvalho battagliero sia per i media portoghesi più vendibile del Bruno De Carvalho riflessivo. Il fatto è che attualmente, nella vita pubblica portoghese e non soltanto nel calcio, non c’è un personaggio che parli in modo diretto come me. E quando parlo di comunicazione diretta mi riferisco anche al modo di comunicare al pubblico gli obiettivi che intendo perseguire e il modo per perseguirli. Ai media sta bene il Bruno De Carvalho che dà battaglia. Faccio un esempio. Ieri, dopo due giorni di congresso d’alto livello ho tenuto una piccola conferenza stampa. Ma del congresso si è parlato cinque secondi, e da quel momento in poi le domande che mi sono state rivolte erano sugli arbitraggi nel nostro campionato. Si tratta di un modo d’agire dei media che rispetta una logica commerciale. Quando arriverà il giorno in cui le polemiche smetteranno di far vendere i giornali, tutto questo finirà".
Nei mesi scorsi lo Sporting ha condotto delle campagne. Una, per l’adozione delle tecnologie video a supporto delle decisioni arbitrali, è andata a buon fine. Un’altra, quella contro il ruolo dei fondi d’investimento nel controllo dei diritti economici dei calciatori, ha registrato un giudizio avverso da parte del TAS nei vostri confronti, riguardo alla controversia con Doyen per il trasferimento di Rojo al Manchester United. A che punto è questa battaglia? E che tipo di solidarietà avete incontrato da parte del mondo del calcio.
"Quando abbiamo iniziato la battaglia contro i fondi ci sono stati alcuni presidenti di club che mi hanno telefonato per dirmi che erano al cento per cento dalla nostra parta, ma non potevano dichiararlo in pubblico. E questo dice molto sul timore che nel calcio circola su a questo tema. Riguardo allo Sporting, posso dire che l’anno in cui il club è stato più coinvolto coi fondi è stato anche il peggiore della sua storia. La squadra è arrivata settima (era il 2012-13, nd), con la conseguenza che per la prima volta dacché esistono le competizioni europee non ci siamo qualificati. Inoltre la società ha accumulato cento milioni di debiti. Quando sono stato eletto presidente lo Sporting aveva il 100% dei diritti economici di un solo giocatore, tutti gli altri erano sotto il controllo di soggetti finanziari. Inoltre, va precisato che io non sono partito con un atteggiamento negativo verso i fondi. Prima ho voluto capire come funzionino e quale effetto abbiano sui club. E dopo essermi fatto quest’idea ho capito che i fondi sono il male del calcio. Purtroppo molti club non hanno percepito questo pericolo. E soprattutto non lo percepiscono i grandi club, che sono totalmente presi dal grande business. Non colgono che se non viene dato al calcio un ambiente trasparente e compatibile, il calcio rischia di morire. E so che qualcuno potrebbe giudicarmi pazzo se dico questo, perché a suo giudizio il calcio non morirà mai. Gli rispondo che fino a qualche anno fa c’erano in America e in Inghilterra istituzioni bancarie centenarie, delle quali si diceva che fossero troppo grandi per fallire. E invece sono fallite e adesso non esistono più. Per questo, un giorno, anche chi adesso non appoggia la mia battaglia, capirà che questa non era una battaglia di Bruno De Carvalho o dello Sporting, ma anche per la sua difesa. Purtroppo la consapevolezza del problema è minima".
Che commento dà della sentenza del TAS riguardo al conflitto Sporting-Doyen?
"Per me è stata una sorpresa. Ero convinto di avere ragione, e questa convinzione era data da come erano andate le cose durante il dibattimento. Le regole del calcio davano ragione a noi, la legge comune dava ragione a noi. E lo sviluppo del caso davanti al TAS andava a nostro favore. Invece è venuta fuori una sentenza che ha favorito Doyen. Che dire? Di sicuro non finisce qui. Continuiamo la nostra battaglia in altre sedi".
Tocchiamo il tema Football Leaks. Quando il sito fece la sua prima apparizione pubblicò soprattutto documenti riguardanti lo Sporting, tanto da sembrare uno Sporting Leaks. E per questo motivo avete presentato una denuncia alla polizia. Poi però il raggio d’azione di Football Leaks si è allargato, cominciando a colpire anche altri club. Questo l’ha portata a cambiare opinione sul sito, o continua a mantenere un atteggiamento negativo? "Voglio ricordare che all’inizio quel sito fu un’operazione di attacco allo Sporting, e tale per me è rimasta. Lo Sporting non ha niente da temere da Football Leaks. Però voglio ricordare alcune circostanze. Pochi ore prima che Football Leaks apparisse, un personaggio vicino a un altro club portoghese ha detto, durante una trasmissione televisiva, delle cose di natura riservata riguardanti lo Sporting. E di lì a poco è spuntato il sito. La stessa cosa, con lo stesso personaggio come protagonista, è successa un mese fa. Ma non è solo per questo che do un giudizio negativo di Football Leaks. C’è che se uno non vuole si rubi in casa sua, allora deve essere contrario anche al fatto che si rubi in casa d’altri. E noi non dobbiamo mai dimenticare che i documenti pubblicati da Football Leaks sono rubati. Anche se vengono pubblicati documenti che danneggiano i miei avversari, non mi interessa: il mio giudizio sull’operazione è negativo al cento per cento. E soprattutto ce l’ho col primo componente della banda, quello che ha pubblicato i nostri documenti quando il sito ha cominciato la sua attività. Questo signore ha avuto l’onore di passare alla storia per essere stato il primo a pubblicare dei leak calcistici, e sarà anche il primo nella storia a finire in galera per questo motivo".
Per concludere: se dovesse spiegare ai lettori italiani cos’è lo sportinguismo, come lo definirebbe?
"Il motto dello Sporting Clube de Portugal è: “Esforço, Dedicaçao, Devoçao, Gloria”. Lo Sportinguismo è un sentimento che si tramanda dai genitori ai figli, ma dire questo non basta. Perché poi è il singolo individuo a coltivare lo sportinguismo dentro sé. Il ragazzino che nasce sportinguista si ritrova a scuola con ragazzi benfiquisti o portisti che lo prendono in giro perché vince poco rispetto a loro, e a quel punto potrebbe essere tentato di cambiare bandiera. Ma non lo fa, e non lo farà mai. Perché lo sportinguismo è un sentimento profondo d’appartenenza, quello che porta i suoi tifosi a non voltare mai le spalle alla squadra. Nemmeno nei momenti più difficili".
@pippoevai