Il Milan e il male incurabile: Tabarez, il 'Maestro' dell'Uruguay che vive di calcio
Tabárez è fermo a bordo campo, quasi pietrificato. Le emozioni, le vibrazioni positive scorrono ma lui non lo dà a vedere, perché il Maestro è fatto così. Da sempre. Possiede un aplomb che più di un uruguagio lo fa sembrare inglese. Laxalt lo stringe e lui sta fermo, sorretto da una stampella diventata ormai la sua compagna di vita, nonché il supporto che gli permette di affrontare al meglio la sindrome di Guillain-Barré, una malattia autoimmune dovuta alla demielinizzazione delle fibre nervose.
“Roba medica, della quale si occuperanno i dottori” disse Tabárez, al quale nel 2016 venne diagnosticata questa patologia proprio nel periodo in cui il suo Uruguay era impegnato in Copa America. Poco male, perché nonostante il consiglio dei medici, a 71 anni il Maestro – soprannominato così ai tempi della sua prima esperienza sulla panchina dell'Uruguay – è ancora sulla cresta dell'onda. Diego Laxalt è solo l'ultima delle sue invenzioni, in una carriera spesa quasi interamente a lavorare per il proprio paese. Chiamato a rinnovare per l'ennesima volta la nazionale, Tabárez si è presentato in Russia con una rosa molto interessante, composta da qualche elemento di esperienza e tanti giovani da lanciare. Nonostante i dubbi sulla sua saluti abbiano fatto dubitare anche i media locali, il ct ha dimostrato di saperci ancora fare: all'esordio, contro l'Egitto, ha corretto la squadra in corsa con due cambi a inizio ripresa, aggiustando una squadra poco efficace negli spazi e riproponendola poi contro Arabia Saudita e Russia, terminando il proprio girone a punteggio pieno senza subire gol.
Tabárez è questo: meticoloso, perfezionista ma soprattutto molto abile a gestire il rapporto umano con la sua truppa. Nessuno parla male di lui, nemmeno quelli che potrebbero avere qualche motivo per farlo: “Sono triste perché non ci sarò – ha dichiarato Federico Valverde, 19 anni e futuro assicurato nella mediana celeste all'indomani della sua esclusione dai 23 per la Russia – ma so che arriverà il mio momento: adesso è tempo di tifare per i miei compagni e per il nostro mister”.
Dopo una carriera da calciatore non di primissimo livello, Tabárez appese gli scarpini al chiodo verso la fine degli anni '70. Una decina di anni dopo la federazione gli diede in mano la nazionale, con il compito di qualificarla al mondiale italiano. Missione compiuta e ottavi raggiunti: quell'Uruguay non era una grande squadra, ma metteva in campo garra, huevos y corazón. In poche parole: grinta e senso di appartenenza. Italia '90 fu un trampolino di lancio che, alcuni anni dopo, gli permise di approdare da noi: Cagliari, a due riprese, e poi Milan furono le sue due tappe italiane, dove non lasciò un grande ricordo distorcendo di fatto la percezione che spesso qui si ha di lui. Mentre Tabárez girava il mondo, l'Uruguay cadeva in crisi profonda e così, nel 2006, la federazione lo richiamò per dargli modo di attuare 'El Proceso': tornando a Montevideo, il tecnico avrebbe dovuto coordinare tutte le nazionali charrúa in modo da dare continuità alla crescita dei tanti talenti sparsi in giro per il paese.
Dodici anni dopo il Maestro è ancora lì, su quella panchina: in mezzo sono arrivate tre qualificazioni ai mondiali, una Copa America (nel 2011, con Diego Forlán grande protagonista) e un numero impressionante di riconoscimenti individuali. E, ovviamente, anche l'esplosione di tantissimi giocatori, che fanno a tutt'oggi dell'Uruguay una delle selezioni più forti e complete del momento: “Il mio segreto? Tratto tutti allo stesso modo. Se hai un problema, ne parliamo. Così ho cresciuto i miei figli, e così tratto i miei calciatori”.
Perché in fondo l'Uruguay è una specie di famiglia allargata. E Tabárez il suo riferimento.