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    Il genio non è tutto, in Qatar ha vinto il coraggio: perché il trionfo di Messi non vale l'impresa di Maradona

    Il genio non è tutto, in Qatar ha vinto il coraggio: perché il trionfo di Messi non vale l'impresa di Maradona

    • Giancarlo Padovan
      Giancarlo Padovan
    Che cosa ci lascia in eredità il Mondiale?
    La considerazione più potente è quella che segue: i tre più forti calciatori della manifestazione - Messi vincitore della Coppa, Mbappé capocannoniere e Neymar protagonista fino all’ultimo con il Brasile - giocano nello stesso club - il Paris Saint Germain - che, però, da anni, a parte le competizioni nazionali, non riesce a vincere nulla. Un paradosso imabarazzante per chi fa calcio e indirettamente anche per chi lo studia. 

    Che cosa ci insegna, allora, questa Coppa del Mondo?
    Insegna che per vincere il fuoriclasse non è tutto e che, sempre di più, c’è bisogno di un contesto. Oltre ad essere complementare, esso deve esaltare le caratteristiche dei calciatori. 

    Questo significa che la squadra conta più del singolo?
    Non necessariamente. Messi che scappa a Gvardiola e lo stacca con un campionario di finte e di strappi brevi è la genialità del singolo. Tuttavia l’impossibilità del Psg stabilisce che un’altissima concentrazione di talento e qualità individuale, per di più collocata nel settore offensivo, è insufficiente a produrre risultati e vittorie in campo internazionale, dove, tra l’altro, le scuole calcistiche evolvono anche grazie alla contaminazione delle diverse esperienze. 

    Si dice che il calcio sia semplice da capire e, dunque, da spiegare. Io trovo che il più delle volte si voglia ridurre a slogan (il calcio lo fanno i calciatori, i campioni ti fanno vincere le partite) quel che è più complesso e articolato. Dato per scontato che non ci sia la prevalenza di un sistema di gioco su un altro, come spiegare la finale tra Argentina e Francia, dominata per quasi ottanta minuti dai sudamericani e riaccesa dai Blues con un finale che ha riportato la partita sul piano dell’equilibrio?

    E’ a tutti fin troppo evidente che l’impostazione iniziale di Scaloni fosse vincente al di là della straordinarietà di Messi. Il 4-3-3 sarebbe potuto essere anche rischioso, ma l’interpretazione del pressing ha reso l’Argentina dominante. Poi Messi ha segnato su rigore, provocato da Di Maria, ma questa necessità di identificare la parte con il tutto - il fenomeno per la squadra - è destinata ad allontanarci sempre di più dalla comprensione del gioco. Certo, è stato il Mondiale di Messi, nessuno glielo toglie ed è anche giusto che venga celebrato in questo modo. Ma l’Argentina di oggi è di gran lunga migliore di quella del 1986. Maradona vinse letteralmente stando sopra quella sua squadra: non ne era solo il motore, era la benzina, classe infinita accoppiata ad un’infinita potenza. In Messico fu lui, più dieci giocatori modesti, a conquistare la Coppa in un calcio ormai remoto. Trentasei anni fa la prevalenza del genio era ammessa, l’organizzazione tattica era ridotta e le Nazionali, anche le più forti, si facevano con la somma delle individualità.

    Oggi non è più così. L’Arabia Saudita, che resta l’unica ad avere battuto i campioni del mondo, giocava uomo su uomo (come Gasperini) e con la linea difensiva altissima (come Sacchi). Si eccepirà: come ha fatto allora Mbappé a segnare tre gol in finale, praticamente senza che la Francia lo sorreggesse? La sua non è un’affermazione puramente individuale?
    Chi parla così trascura sia i cambi di Deschamps (Coman per Theo Hernandez e Camavinga per Griezmann), sia la correzione del sistema di gioco (dal 4-2-3-1 al 4-2-4) che aveva dato, pur in una situazione di squilibrio, più slancio e più velocità all’attacco. Inoltre, se proprio la vogliamo dire tutta, Mbappé ha fatto un solo grande gol su azione (quello del 2-2), gli altri sono stati due calci di rigori trasformati (tre con la sequela finale). Questo non toglie nulla alla sua grandezza, è certamente l’erede di Messi e, per il modo di giocare, anche di Pelè. Tuttavia la Francia era rimasta troppo ai margini della partita per fornirgli il contesto di cui parlavo e di cui lui, come tutti, avrebbe avuto bisogno.

    E’ stato un Mondiale bello perché i calciatori, al contrario di quando giocano in piena estate, non sono arrivati all’appuntamento stanchi e spremuti (casomai sarà un problema riavere gente subito fresca nei club) e bello lo è stato anche perché il livello degli allenatori è nettamente cresciuto (lo dimostra il Marocco). Vi si avvertiva, poi, il bisogno di un sovvertimento dei valori. Una Nazionale sudamericana non vinceva da vent’anni (Brasile 2002), l’Argentina cercava la terza stella da trentasei. In finale aveva più fame, ci ha messo più determinazione, è stata una squadra di sangue caldo. Anche avere sofferto di più ha avuto il suo peso.

    L’atteggiamento nuovo è il coraggio. A parte gli speculatori conclamati, di cui forse, per un brevissimo tempo, ha fatto parte anche Scaloni, quasi tutti vanno per giocarsi la partita. E’ vero che, alla fine, il risultato continua a contare più di qualsiasi altra cosa, ma l’ultimo Marocco - pur perdendo contro la Francia in semifinale e contro la Croazia nella finalina - ha dimostrato che non si è mai troppo piccoli per lasciare un segno nel calcio

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