Il doppio ex Mancini presenta Milan-Roma a CM: 'Rossoneri da scudetto, Mourinho? Non basta lui per vincere'
Come nasce il soprannome 'Mancini'?
"Quando ero piccolo ero molto calmo, mia nonna mi chiamava 'mansinho'. Per tutti, io e mio fratello gemello eravamo mansinho io e 'gordo' lui, perché era un po' più cicciottello. Quando sono entrato nella Primavera dell'Atletico Mineiro però mi dissero che il mio soprannome non era adatto per un calciatore, così diventai Mancini".
Nel 2003 sbarca in Italia, al Venezia.
"Ho due ricordi in particolare. Prima di tutto la temperatura: venivo dai 40° del Brasile e mi sono ritrovato ai -2 di Venezia. Poi ricordo la prima volta a cena fuori: l'Italia era famosa per la pasta e la pista, ma mi continuavano a portare solo carne e pesce crudo al quale non ero abituato. Volevo tornare in Brasile".
Anche in campo le cose non andavano benissimo.
"L'allenatore mi diceva che ero scarso e non mi faceva giocare. Durante una partitella ho stoppato un pallone lungo con l'esterno, era l'unico modo. Il mister mi disse che non potevo farlo, ma non capivo il perché. L'esperienza a Venezia però mi ha aiutato ad ambientarmi in Italia, imparare la lingua e imparare un nuovo tipo di calcio fatto di dinamicità, forza e intensità".
Poi l'arrivo a Roma che cambiò la sua carriera.
"Appena arrivato a Trigoria, vado nell'ufficio di Capello che mi chiese subito perché a Venezia non giocavo. Mi portò in ritiro, mi fece fare la prima amichevole e da quel giorno non mi tolse più".
Quel gol di tacco contro la Lazio è stato istinto o l'aveva studiato?
"Nulla di preparato, l'ho improvvisato. Era l'unico movimento che potevo fare per prendere il pallone. Se rivedere l'azione, anche Emerson dietro di me si stava preparando per prenderla di tacco, solo che io l'ho presa al volo, e lui l'avrebbe fatto col pallone a terra".
L'altro gran gol in giallorosso è quello al Lione con un tiro potente all'incrocio dei pali dopo un numero infinito di doppi passi a Reveillere.
"Quello era un numero che provavo sempre, con la Roma di Spalletti ci veniva tutto facile. Giocavamo a memoria".
Se li riguarda ogni tanto quei due gol?
"Sì, spesso. Ogni giorni mi arrivano notifiche su Instagram di persone che mi taggano da tutto il mondo con i video. Li ho rivisti mille volte anche insieme ai miei figli, anche a loro arrivano i video dagli amici".
Quale sceglie dei due?
"Sono due gol diversi e importanti entrambi, ma scelgo senza dubbio il derby. Quella contro il Lione, però, è stata una delle dieci reti più belle della storia della Champions. Ricordo che anche a distanza di anni, quando mi riscaldavo prima di una gara europea, sul maxischermo facevano vedere quel gol. E io mi caricavo".
È vero che Capello voleva portarla alla Juve?
"Sì, è vero. Ma la trattativa tra club non è andata in porto. Io, a prescindere, volevo rimanere perché ero arrivato da poco in Italia e a Roma stavo facendo molto bene".
Chi altro l'ha cercata quando era in giallorosso?
"Dopo il gol c'è stata una trattativa con il Lione. Negli anni si sono informate anche Barcellona e Real Madrid, ma non si è mai concretizzato nulla".
Nel 2010 lasciò l’Inter del Triplete a metà stagione per andare al Milan. Ha qualche rimpianto? "Il rimpianto è quello di non aver dato tutto quello che avevo dato a Roma; forse per problemi fisici, per il cambio di città... ma non è successo. L'Inter aveva più campioni della Roma, era difficile affermarsi. Non mi pento di quello che ho fatto, ma di quello che non ho fatto".
Che allenatore è Josè Mourinho?
"Un tecnico che ti entra dentro, lavora molto sulla testa dei calciatori e capisce di calcio. Un top. E' il profilo perfetto per l'ambiente giallorosso, ma oltre a lui, per arrivare ad alti livelli, servono anche campioni in campo".
Ci racconta un aneddoto con Mou?
"Intervallo di Panathinaikos-Inter, stavamo vincendo 2-0 con gol mio e di Adriano. Avevo fatto un gran primo tempo, lui nello spogliatoio mi disse che stavo giocando malissimo. Nella ripresa ho fatto ancora meglio, quelle parole erano state dette volutamente per caricarmi ancora di più".
Chi è il calciatore più forte col quale ha giocato?
"Ce ne sono tanti, da Totti a Ronaldinho, passando per Ibra. Ma se devo sceglierne uno solo dico Ronaldo, il brasiliano. Ci ho giocato in nazionale, era un fenomeno. Prendeva palla e andava in porta".
Come la vede Milan-Roma di oggi?
"Speriamo sia una gran partita. In questo momento il Milan sta meglio, la Roma ha giovani interessanti, ma gli manca continuità. E credo che i rossoneri possano vincere lo scudetto".
Pronostico?
"Finirà in pareggio, anche se personalmente sono più legato alla Roma. Mi piacerebbe un giorno poterla allenare, sarebbe un sogno".
La prima esperienza da allenatore l'ha fatta a Foggia, dove però ha deciso di lasciare dopo pochi mesi. Cos’è successo?
"E' stata un'esperienza bella in una piazza importante e con grande passione, sono arrivato in un momento difficile del club ma nonostante tutto sono stati quattro mesi intensi, durante i quali abbiamo lavorato bene. Non andavo d'accordo con il direttore Corda, voleva comandare e fare tutto lui. Così ho deciso di andare via, anche se altri dirigenti mi avevano chiesto di rimanere".
Una volta vi siete anche allenati alle sei di mattina.
"Ecco, per esempio io non ero d'accordo con quella scelta. Ma ha deciso Corda".
A quale allenatore si ispira?
"Ne ho avuti tanti importanti, ma per il tipo di gioco scelgo Spalletti. Mi ha insegnato molto, ogni tanto ci sentiamo ancora oggi".
Chi è l'allenatore che l'ha stupita di più durante le visite nei club di Serie A?
"Gasperini e De Zerbi sono gli allenatori più rivoluzionari, quelli che mi hanno colpito di più. Soprattutto nel modo di preparare le partite e nello studio degli avversari. Sono due profili simili a quello di Spalletti".