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Il calcio femminile nel professionismo anche grazie a Marotta, ma rischia di diventare un boomerang
Con il calcio femminile ho fatto un tratto di strada lungo e significativo. Raccontarlo significa ripercorrere un passaggio che spiega vent’anni della nostra comune esperienza agonistica.
Sono diventato allenatore di calcio nel 1998 e, due anni dopo, nell’agosto del 2000, ho cominciato a guidare, da secondo, una squadra femminile, il Fiammamonza, neo promossa dalla serie B. Altri due anni e poi ho fatto da solo. Con il Torino, sempre in serie A, ottenni un terzo, un secondo e un quinto posto. Arrivammo in finale di Coppa Italia (persa ai rigori) e disputammo la finale di Supercoppa (persa per un calcio di rigore).
LA PASSIONE - Neppure ventidue anni fa il femminile era dilettantismo puro. Le calciatrici lo erano per status, ma guadagnavano fino a ventimila euro l’anno, cifra consentita dalla Federcalcio. Le più brave, in nero, anche il doppio. Scrivo queste cose, primo perché sono vere, secondo perché le ho vissute contribuendo a finanziare quel mondo con i miei cospicui stipendi da direttore di Tuttosport. In quegli anni ho conosciuto gente che, per il calcio femminile e l’ambizione di avere una squadra in serie A, si è letteralmente rovinata. Se il calcio è una droga (ricordate? l’oppio dei popoli), il calcio delle donne è un magnete che attira tutto e tutto fagocita. Non c’è una spiegazione razionale a tanta dissipazione economica (non ci sono introiti, solo spese) a meno che non si intenda ricondurre tutto alla passione e al desiderio, più o meno inconscio, di farsi amare, ovviamente in maniera platonica, da un gruppo di ragazze che tirano calci ad una palla a volte meglio degli stessi uomini.
LA SCALATA - Da allenatore a presidente, il passo è stato breve. Non di società, però. Presidente istituzionale e, per la precisione, della Divisione calcio femminile della Federcalcio. Decisi di candidarmi il giorno della finale di Coppa Italia che avremmo disputato contro il Bardolino Verona. Alla fine della partita non c’era la Coppa. Alla Divisione, chi mi precedeva, aveva deciso di consegnarla in un secondo momento. Mi indignai. Era come fare l’Amleto senza Amleto.
La mia discesa in campo fu un trionfo: nessun concorrente interno, eletto per acclamazione. Ero giovane e avevo grandi progetti, soprattutto per il marketing e la comunicazione. Pensavo, intanto, di trasformare la Divisione in una Lega e poi di avviare una sorta di semiprofessionismo graduale. Me ne andai due anni dopo. Il capo della Lega Dilettanti, da cui dipendevamo e che non vedeva l’ora di silurarmi, ci negò i finanziamenti che ci sarebbero spettati e chiese al plenum dell’assemblea della Federazione di ridurci a Dipartimento, naturalmente sotto la sua cappella. I delegati bocciarono la sua proposta e io avrei potuto continuare la mia battaglia personale. Ma ero solo e stanco, volevo tornare a fare il mio mestiere e mi dimisi, nonostante la maggioranza delle società (quelli che mi avevano eletto) mi pregasse di restare.
Il commissario tecnico della Nazionale di allora, Pietro Ghedin, un galantuomo che mi aveva apprezzato come capo delegazione della sua Italia, mi disse: “Se tu non sei riuscito a cambiare il calcio femminile italiano, non ci riuscirà nessuno”.
LA SPINTA - Fortunatamente si sbagliava e mi sbagliavo anch’io che, presuntuosamente, la pensavo come lui. In questi vent’anni il calcio delle donne in Italia è effettivamente cambiato. E’ accaduto da quando i club professionistici maschili hanno istituito l’omologa squadra femminile. Ha cominciato la Fiorentina, l’ha seguita la Juventus e via via tutte le altre: Milan, Roma, Inter, Sassuolo, Verona, Empoli, fino ad arrivare a Lazio e Sampdoria. Nell’ultimo campionato, i club veramente dilettantistici erano Napoli e Pomigliano.
Tra i più illuminati c’è stato Beppe Marotta che, quando era alla Juventus, destinò un paio di milioni per gettare le basi della prima squadra e di un settore giovanile articolato. Ma il grande impulso l’ha dato la televisione, precisamente Sky, che ha riprodotto il format del calcio maschile per il calcio femminile. Una sorta di parità informativa che ha lanciato un vero e proprio prodotto, al quale hanno contribuito anche i buoni risultati della Nazionale all’ultimo Mondiale di Francia. La Federazione, più che artefice, è stata spettatrice subendo, purtroppo, due situazioni: il passaggio dei diritti di campionato e Coppa Italia a La7 e la spinta governativa per il passaggio al professionismo delle ragazze.
IL BOOMERANG - La seconda decisione, è ovvio, non può essere biasimata, ma sta producendo un improvviso rallentamento. Ci sono club, anche tra quelli professionistici, che non se la sentono, a fronte di una gestione in perdita, di raddoppiare o, addirittura triplicare i costi. Così il professionismo che, per le calciatrici significa, oltre che qualche soldino in più (ma siamo sempre sull’ordine dei 2.000/3.000 euro), previdenze e tutele, rischia di diventare un terribile boomerang che affossa le società dilettantistiche e mette a rischio quelle professionistiche. I primi effetti letali si sono già avvertiti. L’Empoli ha ceduto il titolo in serie A al Parma ed è scomparso. Molte giocatrici sono andate in Emilia, altre sono a spasso e, se vorranno accasarsi, dovranno contrattare al ribasso. Non era questo il professionismo che ci si aspettava, ma forse sarà questo il futuro che ci toccherà.