Il calcio di un poeta
Non sono molti gli scrittori italiani o i poeti che abbiano scritto sul calcio. Leopardi dedicò la sua canzone "A un vincitore nel pallone" (titolo oggi che potrebbe essere riferito a Mourinho dopo il derby col Barcellona) a Carlo Didini di Treia , una città non molto distante da Recanati. Ma , in questo caso, il gioco non era quello del calcio, bensì il pallone del bracciale, uno sport molto antico, che assomiglia in parte la pallone elastico di Langhe e Provenza. Saba immortalò il portiere della Triestina, l'amarezza d'essere un vinto, come il Galata morente, trafitto a terra sulla linea della porta. Oggi Valerio Magrelli, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei dedica un intero libro di prose al calcio. A dire il vero, il suo "Addio al calcio" (Einaudi editore) è un addio al pallone, a un tempo fatta di campetti e cortili, di pali segnati col maglione, di campi delineati con la calce. Più che un addio al calcio è un addio al pallone inteso come gioco e piccola avventura quotidiana, un'addio a un'epoca fatta di mitologiche semplicità, di slanci del cuore e di solitudine, di speranze e delusioni che oggi ci sembrano artigianali, legate al tempo della meccanica e del cuoio.
Diviso in due parti, di 45 raccontini ciascuno, come i minuti di una partita (senza recupero però) "Addio al Calcio" è un bellissimo libro che dovrebbero leggere tutti quelli per cui questo gioco è stato una specie di pentagramma dei giorni perduti e conquistatii. La prosa è cristallina, i ricordi indelebili, asciugati in una specie di nostalgia liofilizzata:"In cortile non c'è più nessuno, è pomeriggio, ha appena smesso di piovere e si sentono solo i colpi lenti della sfera che batte e rimbalza, echeggiando fin nella tromba delle scale. Rimbombi profondi, cardiaci, e il rimbalzo. La mia infanzia è segnata da questo metronomo. E'così che ho imparato il controllo di palla". Oppure: "Giocare da soli col padre è un momento struggente, insostenibile. Quei pomeriggi di domenica, a fare due tiretti, mentre una radiolina gracchiava i risultati." Istantanee da un'adolescenza in cui il pallone era una parentesi quasi magica oppure da campionati remoti(l'incidente di Mora con la gamba ripiegata in due, il giocatore della Fiorentina che riprese la vista dopo averla persa per un colpo di testa) o presenti :il portiere che non resiste e orina davanti a 60 mila spettatori, il sopravvissuto Czeck che gioca con un casco paraorecchi nero. Si ricordano talentuose promesse mai sbocciate come Claudio Valigi, "il nostro milite ignoto, che rappresenta le decine di migliaia di ragazzi caduti sul percorso della gloria senza arrivare a ottenerla. Scivolò a un passo dalla meta, anzi, dopo averla toccata. Più di Dorando Pietri, dunque, ma al contempo meno, perché il suo nome sparì, inghiottito dal nulla." L'autore tradisce sommessamente la propria fede romanista. Fede? E'dir troppo. Di quella ora non resta che una sinopia, una sagoma sotto traccia, un confine sbiadito. Quel segno di confine tra la sua squadra e il resto del mondo, che ancora vive nei ricordi, si scolora ogni volta che entra in campo l'Inter. Diversamente da come spesso accade, il figlio non segue il credo paterno: è il padre che va incontro al figlio, per amarlo di più. Per amare la sua gioia, mostra felicità ogni volta che l' Inter vince, perché il figlio è interista. Si vuole scongiurare, insomma, un derby dei sentimenti, a tutto vantaggio dell' amore e non del tifo.