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Il Barcellona e Laporta di nuovo presidente: fra scandali e bilanci, il peggior ritorno al passato
Nulla che non potesse essere peggiorato dai successori, tuttavia. Perché fra il Laporta 1 e il Laporta 2 si sono succeduti due presidenti che hanno conosciuto l'umiliazione del carcere. Dapprima è toccato a Sandro Rosell, che fra il 2017 e il 2019 si fece 604 giorni di detenzione preventiva con l'accusa di riciclaggio salvo poi essere assolto (QUI); a lui rimane comunque ascritto il caotico balletto di pagamenti e commissioni per il trasferimento di Neymar dal Santos nell'estate del 2013.
E giusto la scorsa settimana è stato il turno di Josep Maria Bartomeu (QUI), dimissionario a fine ottobre 2020 e sospettato di avere usato denaro del Barça per pagare una società privata (la I3 Ventures) allo scopo di creare una propria “bestia”. Cioè una macchina per la costruzione di contenuti web dai toni trionfalistici per lui e, soprattutto, denigratori per i nemici interni, fra i quali Leo Messi e Gerard Piqué (QUI).
Rispetto ai due successori-predecessori, Joan Laporta non ha conosciuto la detenzione. Ma gli scandali, legati al disinvolto uso del Barça per interessi personali o a un esercizio spregiudicato del potere presidenziale, quelli sì. Che sia uscito indenne in termini giudiziari non sposta il giudizio etico-morale. E che questa tara non abbia influito sull'esito del voto presidenziale, che lo ha visto premiato col 54,28% al termine di una consultazione fra le più partecipate della storia (34.184 i votanti), costituisce la definitiva confutazione della favoletta sul Modello Barça come esempio di democrazia e partecipazione popolare.
Perché vi sia democrazia non basta che i tifosi eleggano il presidente. Bisognerebbe anche che sorvegliassero e incidessero sul suo operato, anziché assistere impotenti all'edificazione di un deficit che ha sfondato il tetto del miliardo di euro o rieleggere figure altamente screditate. Il ritorno di Joan Laporta, a undici anni di distanza dal suo addio, è la pietra tombale per un modello e una narrazione.
Ma su quali episodi si fonda questo giudizio negativo, peraltro condiviso da molta parte del barcellonismo? La risposta è che esso si basa su almeno tre dossier.
Il primo fa il paio con le accuse che in questi giorni vengono rivolte a Bartomeu e sarebbero alla base del suo provvedimento di arresto: l'uso di denaro del Barcellona per pagare un'agenzia esterna e commissionarle attività per niente istituzionali. Ai tempi di Laporta si trattò di un'operazione di spionaggio, condotta nei confronti di possibili rivali del gruppo dirigente in carica ma anche di esponenti politici, di calciatori blaugrana (fra cui Ronaldinho, Eto'o e Deco), persino di giornalisti e magistrati. La società incaricata di compiere l'attività spionistica, fra il 2008 e il 2010, si chiama Método 3 (QUI). Laporta ha cercato di negare di essere coinvolto nella vicenda, nonostante che alcuni protagonisti raccontassero tutt'altra versione (QUI).
Due esponenti di punta della compagine presidenziale come Joan Oliver e Ferran Soriano (quest'ultimo è l'attuale amministratore delegato del Manchester City) sono stati successivamente denunciati dal Barcellona sotto la presidenza di Sandro Rosell, con l'accusa di avere usato il denaro (circa 2,4 milioni di euro) della società per scopi inappropriati. Nel 2017 la querela è stata ritirata perché nel frattempo i due avevano versato un risarcimento (QUI).
La seconda vicenda è stata denunciata dall'agente turco Bayram Tutumlu e raccontata indirettamente da Calciomercato.com a agosto 2019 (QUI). Tutumlu accusò Laporta di avere sfruttato il Barcellona per avviare, attraverso il proprio studio legale Laporta & Arbós, ricchissimi rapporti di consulenza col regime dittatoriale dell'Uzbekistan guidato da Islam Karimov e soprattutto con la figlia dell'autocrate, Gulnara Karimova. Tutumlu ha anche trascinato in tribunale Laporta perché riteneva di aver fatto da intermediario fra il presidente del Barça e il regime uzbeko e dunque pretendeva il 10% dei proventi delle consulenze. E davanti ai giudici Laporta ha dovuto dichiarare di avere portato a casa oltre 10 milioni di euro per i servizi legali prestati al regime uzbeko, intanto che il Barcellona veniva usato dal regime come strumento di propaganda (QUI). Con sentenza di novembre 2011 il Tribunale di Barcellona ha giudicato insussistenti le pretese di Tutumlu (QUI). Ciò che però non ha dissolto le ombre su Laporta e sul modo in cui ha utilizzato il Barcellona in questa vicenda.
Del terzo episodio si è saputo nel 2017. Riguarda una società maltese fondata nel 2016 e denominata BMVP Limited, in cui Laporta risultava socio unitamente al superagente israeliano Pini Zahavi (QUI). La notizia è stata rivelata nel quadro dell'operazione Paradise Papers, dedicata all'economia offshore. E dal punto di vista della tifoseria barcellonista faceva specie che un ex presidente blaugrana facesse bottega col super agente indicato come il principale architetto dello “scippo” di Neymar avvenuto nell'estate del 2017 a beneficio del Paris Saint Germain. Dopo la pubblicazione della notizia Laporta si è affannato a smentire.
E però merita segnalare che proprio in queste ore, mentre ancora viene celebrata la sua elezione, egli starebbe tentando il primo colpo della propria presidenza: l'austriaco David Alaba. Che è in scadenza col Bayern Monaco e non rinnova a causa delle esose pretese del suo agente, bollato come “avido piranha” dalla dirigenza bavarese. Quell'agente risponde al nome di Pini Zahavi (QUI).