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    Idee rivoluzionarie e risultati, viaggio nel fenomeno Red Bull: c'è da imparare

    Idee rivoluzionarie e risultati, viaggio nel fenomeno Red Bull: c'è da imparare

    • Matteo Quaglini
    Tre città Salisburgo, Lipsia, New York e un comune denominatore, la Red Bull. Dalla metà degli anni 2000, a partire precisamente dal 2005, il colosso che produce bevande energetiche ha deciso di entrare nel calcio professionistico e di costruire, o meglio, ri-costruire squadre ex-novo nel doppio segno di una filosofia: il sogno di portare, col proprio nome e le proprie idee rivoluzionarie, la vittoria laddove non esiste. E di instaurare anche la commercializzazione del prodotto industriale nel quadro di un mecenatismo rovesciato di colonizzazione di spazi storici magari anche piccoli o regionali, in grado però negli anni di diventare miniere d’oro. E’ l’operazione “El Dorado” caratterizzata dall’intelligenza sopraffina di accostare un marchio al gioco più conosciuto e seguito del mondo. Non una novità certo, né tanto meno un concetto che si possa definire nella sua particolarità rivoluzionario, ma nella sua complessità sì.

    La Red Bull è l’esempio finora più riuscito di successo nel calcio, dell’idea a-storica del football. Questa società è riuscita ad espandersi nel cuore dell’Europa, la Germania e oltre l’Atlantico negli Usa nel posto cioè dove parole come brand, mercato, sponsorizzazioni, incassi, si legano indissolubilmente e nel migliore dei modi con lo sport di alto livello. 
    Un’idea geniale perché ha ovviato al vecchio detto: “chi una storia non ce l’ha, non può darsela”, e anche perché ha avuto la lungimiranza di iniziare il suo colonialismo dal mondo germanico: “chi controlla la Germania, controlla l’Europa” diceva Napoleone prefigurando lì, il cuore del suo impero. E non è un caso che la Red Bull abbia cominciato nel 2005 da Salisburgo, un posto che una storia calcistica ce l’aveva e che la racchiudeva in un nome: Sportverein Austria Salzburg, per tutti l’Austria Salisburgo finalista della coppa Uefa 1994 contro l’Inter. La nuova dirigenza gli ha cambiato nome, dandogli come nell’antropologia una nuova identità, in Red Bull Salisburgo. Poi gli ha cambiato i colori sociali e ha provocato una spaccatura nella tifoseria con gli ortodossi che hanno rifondato il club portandolo a giocare col nome della sua fondazione nel 1933, in Regionalliga (la serie C austriaca). 
    Questo distacco dalla storia e dalla tradizione è stato voluto dal proprietario dall’azienda, Dietrich Mateschitz con una affermazione che suonava più o meno così: “Non possiamo seguire la tradizione, noi dobbiamo darci una nostra storia”. I puristi del vecchio Salisburgo hanno trovato spazio però all’inizio, quando i nuovi si sono affidati all’esperienza di Zickler e Linke in campo e di Trapattoni e Matthaus in panchina, a conferma che anche gli a-storici sanno guardare bene. 

    Poi come in ogni rivoluzione ci vuole l’uomo che abbia il coraggio di imporre l’idea guida, nella Salisburgo griffata Red Bull, quest’uomo è stato Rangnick allenatore e dirigente sportivo che oggi opera, non a caso, a Lipsia nel cuore sassone dell’impero Red Bull. Con lui gli austriaci hanno marchiato la loro filosofia di club e squadra: una grande rete di scouting, giocatori giovani con forza fisica e talento, formazione del settore giovanile per i giocatori e gli allenatori. Da qui è uscita l’idea di gioco del gegenpressing, il pressing portato anche da giocatori che finita l’azione corrono all’indietro. E sempre da qui è nato il connubio di questo sistema con la difesa a quattro, antitesi del germanico 3-5-2. I risultati non si sono fatti attendere, 8 campionati, 5 coppe d’Austria, 11 partecipazione alla Champions (senza però qualificarsi ai gironi), la Uefa Youth League come serbatoio, assieme alla Red Bull Salzburg Juniors, per la prima squadra. Velocità di pensiero, azione e organizzazione e fino a ieri imbattibilità europea stagionale, questo è il Salisburgo di Rose e della Red Bull a spiegare bene quanto grande è stata la vittoria della Lazio ieri.

    Dall’Austria alla Germania, passando per Lipsia. Qui la Red Bull ha operato costruendo il suo progetto in quel retaggio sportivo e culturale che era la Germania Est, un bacino giovane e meno qualitativo dell’Ovest dove fosse possibile acquistando la licenza sportiva di una squadra di quinta divisione – SSV Markranstadt – costruire il sogno di scalare la Bundesliga dominata dal Bayern Monaco. Storia contro ambizione del nuovo. Anche qui i risultati non sono mancati: in sei anni, dal 2009 al 2016, dalla Nofv-Oberliga alla Bundesliga; lo scorso anno secondo, oggi avanti 1-0 sul Marsiglia per andare in semifinale di Europa League. 

    Il modello oscurantista secondo i tifosi difensori della tradizione funziona e si espande anche nella M.L.S a New York dove la squadra impegnata nel campionato e nelle semifinali di Concacaf Champions League contro il Guadalajara, è il prodotto della stessa filosofia: si arriva, si colonizza, si cambia il nome da New York/New Jersey Metrostars in Red Bull New York, e poi si gioca per essere i precursori del nuovo, i portatori del calcio del secondo quindicennio del duemila, quello fondato sul talento industriale della produzione in serie.
    In lotta per le semifinali europee dopo aver battuto come Salisburgo: Marsiglia, Real Sociedad, Borussia Dortmund e Napoli e Zenit come Lipsia; dopo aver riempito le loro squadre di giovani di talento come Haidara, Samassekou, Berisha, Schloger e Timo Werner, i figli austro-tedeschi Red Bull sognano la finale fratricida. Sarebbe il massimo per degli a-storici che si sono dati in poco tempo, una storia grande.

    @MQuaglini 

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