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    Ibra, è ora di dire basta. Se Maldini lo conferma, fa un torto anche all'Italia

    Ibra, è ora di dire basta. Se Maldini lo conferma, fa un torto anche all'Italia

    • Alberto Cerruti
      Alberto Cerruti
    Il primo obiettivo è sfumato, perché Zlatan Ibrahimovic non potrà partecipare al Mondiale con la sua Svezia. A questo punto gli rimane lo scudetto, e perché no anche la coppa Italia, con il Milan. Nell’attesa, una cosa è certa: l’eventuale rinnovo con il club rossonero non sarebbe in funzione del torneo in Qatar, tra novembre e dicembre. Ma proprio perché i suoi ultimi dieci minuti con la maglia della Nazionale non sono serviti per coronare il sogno di far meglio dell’Italia di Mancini, è lecito chiedersi perché Ibrahimovic voglia continuare a giocare con la Svezia, visto che a ottobre compirà 41 anni e il prossimo torneo è l’Europeo del 2024, quando ne avrà 43. Il discorso può valere anche per il suo futuro nel Milan, con o senza lo scudetto, perché Ibrahimovic non incomincia una partita da titolare dal 23 gennaio scorso, quando si infortunò subito contro al Juventus.

    Lunedì i rossoneri ospiteranno il Bologna, ma ci sentiamo di escludere che Pioli rilanci Ibra dall’inizio, visto che Giroud sta molto meglio e tra l’altro ha anche segnato nell’amichevole di martedì con la maglia della Francia, campione e del mondo in carica. A otto giornate dalla fine del campionato, è chiaro che Ibrahimovic è una enorme incognita per il futuro suo e del Milan. E a poco serve sottolineare che la società gli ridurrebbe l’ingaggio. Il vero problema sarebbe la presenza comunque ingombrante di un giocatore come lui che sfida la legge del tempo e anche la realtà, visto che i suoi ricorrenti infortuni non sono causati da traumi da gioco, ma da evidente usura del fisico, rivelatosi fin troppo forte fin qui. 

    La logica dovrebbe suggerire ai dirigenti, da Gazidis a Maldini, di dire a Ibra “grazie e arrivederci” proponendogli caso mai un contratto da dirigente, anche se nessuno sa con quali mansioni, perché non basta fare il “motivatore” negli spogliatoi di Milanello o di San Siro per caricare ragazzi che grazie a lui ormai sono cresciuti. Il tempo dirà se il Milan si inginocchierà ai desideri di Ibrahimovic e soprattutto se lui si renderà conto che l’ora dell’addio arriva per tutti anche se dolorosa perché, come ha detto più volte il mitico Zico, i calciatori sono gli unici che muoiono due volte: quando lasciano il campo e poi la terra.

    Al di là del suo incerto futuro rossonero, la sfida di Ibrahimovic si presta a un’altra considerazione di carattere generale, che si collega al fallimento della nostra Nazionale, esclusa per la seconda volta consecutiva dal mondiale e incapace di superare la prima fase della manifestazione addirittura dal 2006, quando vinse il titolo con Lippi in panchina. L’insistenza di puntare sugli attaccanti stranieri e nel caso del Milan di puntare sugli ultratrentenni, e addirittura ultraquarantenni, toglie posti agli italiani, del tutto assenti nell’organico, oppure relegati al ruolo di eterne riserve, da mandare a “farsi le ossa” nelle squadre di provincia. E così, anche se di questo lui non ha alcuna colpa, Ibrahimovic è l’indiretto simbolo della filosofia di quasi tutti i grandi club del nostro campionato ai quali non importa nulla della Nazionale. Perché fino a quando i vari Berardi, Scamacca e Raspadori avranno spazio soltanto nel Sassuolo, mentre il Milan si affida a un quarantenne, invece di cercare un nuovo Inzaghi, il confermato c.t. Mancini non può illudersi che l’Italia torni a vincere il Mondiale. 

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