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I profughi reclusi nell’hotel di Djokovic si ribellano: 'Di che si lamenta? Pensi a noi chiusi a chiave da 10 anni'
Djokovic da quando è arrivato in Australia, cinque giorni fa, è rinchiuso al Park Hotel, una fatiscente struttura utilizzata dal governo australiano per ospitare i rifugiati politici. Lì di recente c'è stato un diffuso contagio da Covid, lì nei pasti capita di trovare vermi, lì negli ultimi mesi sono scoppiati diversi incendi. In questo casermone il governo australiano tiene da mesi alcuni richiedenti asilo, che in queste ore hanno fatto sentire la loro voce, lamentando una condizione al limite della prigionia.
"Siamo chiusi nella nostra stanza in questo edificio e non c’è una scadenza — lo sfogo di Mehdi Ali, riportato dal Corriere della Sera, un ragazzo iraniano di 24 anni richiedente asilo da mesi parcheggiato al Park Hotel e da nove anni in Australia —. Quando scoppia un incendio ci portano tutti nell’atrio ma non fuori dall’edificio». Ishmael, un altro detenuto, spiega che lui, come altri, è trattenuto "in un posto senza aria fresca, senza luce solare". "Spero che Djokovic parli pubblicamente delle condizioni in cui siamo costretti a vivere", dice il bengalese Jamal Mohamed, in una sorta di appello a Nole.
Che intanto aspetta la decisione del giudice attesa per lunedì per capire se potrà o meno restare a Melbourne e giocare l'Australian Open che gli potrebbe portare in dote lo Slam numero 21, uno in più di Federer e Nadal.