Ho letto le 40 pagine di sentenza (cinese) su Conte
Ora: dal punto di vista della qualità dell’inchiesta, prendendo in considerazione il singolo caso di Conte, che poi è quello più eclatante, si può dire che se fosse un processo penale sarebbe un processo che più folle non si può: zero testimonianze documentali, zero prove provate di passaggio di soldi, zero intercettazioni telefoniche o ambientali utili a individuare il reato e solo ed esclusivamente prove de relato (cioè, parole riferite da qualcuno, da un pentito o da un confidente o un testimone), che come si sa, in giurisprudenza, non dovrebbero avere forza probatoria ma dovrebbero essere considerate semplici indizi con i quali – cioè, solo con quelli – dovrebbe essere impossibile costruire un processo a se stante (a Rignano, per dire, esempio massimo e più recente di processo costituito sul principio “de relato”, alla fine le cose sono andate come sappiamo).
A questo, poi, bisogna anche aggiungere che il processo fatto a Conte (e compagnia) sembra essere più sullo stile cinese (senza contraddittorio e praticamente senza processo) che sullo stile di una civile giustizia occidentale. Fatta salva questa premessa, e ricordando (ah, l’Italia) che le sentenze di condanna sono state anticipate sui giornali (sulla Gazzetta in particolare) tre giorni prima che fossero rese pubbliche (cose che forse non accadano neanche in Cina), alla fine dei conti l’impianto accusatorio è fragile. Tutto, come sapete, si basa sulla testimonianza di un pentito (Carobbio, ex Siena) e di una serie di dichiarazioni (molte contraddittorie) di alcuni calciatori e dirigenti sempre ex Siena. In sostanza, Conte è stato condannato in primo grado per omessa denuncia per non aver informato gli inquirenti su una combine che sarebbe stata decisa prima di due partite nel 2011 (Siena-Novara e Siena-Albinoleffe). Gli inquirenti, poi, descrivono anche la scena di due riunioni tecniche antecedenti alle due partite in cui Conte avrebbe informato i giocatori della combine e in cui in un caso (con l’Albinoleffe) Conte avrebbe (!) persino detto ai suoi giocatori di decidere loro come comportarsi (Conte – dice Carobbio in un interrogatorio – “lasciò a noi la decisione finale, ricordandoci comunque che, in caso di una nostra vittoria e di un risultato non positivo dell’Atalanta, saremo ancora riusciti a vincere il campionato”, e un altro ex giocatore del Siena, Sestu, avrebbe detto, parole ritenute importanti dagli inquirenti, che Conte, nel suo discorso prepartita, fece espresso riferimento alla necessità che quella gara non venisse persa", come se una gara che non deve essere persa equivale a dire che quella gara deve essere pareggiata).
La testimonianza di Carobbio, però, che ai fatti resta il perno attorno cui è costruita l’inchiesta, è viziata da una questione non irrilevante. Gli inquirenti sostengono che per quanto riguarda Carobbio vi sia “la totale mancanza di un qualunque motivo di risentimento o convenienza che possa averlo spinto a coinvolgere altri soggetti” come Conte; quando in realtà esiste un fatto, noto, che potrebbe aver determinato una ragione di risentimento di Carobbio nei confronti di Conte. L’episodio è quello della mancata autorizzazione concessa da Conte al suo giocatore di assistere al parto della moglie, ma su questo punto la commissione Disciplinare considera assolutamente incoerente "la circostanza che Carobbio avrebbe accusato Conte per rancore personale, legato all'episodio occorso nel settembre 2010, quando l'allenatore non gli concesse il permesso di recarsi dalla moglie per assisterla durante il parto”, e “al di là della circostanza che una tale motivazione sembra davvero non sufficiente a giustificare una (a quel punto falsa) denuncia addirittura riferita a un illecito sportivo, c'è da dire che le risultanze agli atti comprovano come Carobbio non avesse alcun problema all'interno dello spogliatoio del Siena e non nutrisse alcun risentimento nei confronti di Conte, del quale, anzi, aveva stima”.
Questo è quanto sostiene la disciplinare, ma come è evidente non si basa sua ragione oggettiva ma semplicemente su un’impressione soggettiva che, per forza di cosa, rende meno oggettivo e meno forte l’impianto accusatorio. Impianto accusatorio, poi, reso ancora più debole da una frase magica che compare spesso nei processi smontati poi in appello che gli inquirenti della disciplinare si lasciano scappare. Citando il caso del dottor Stellini (all’epoca collaboratore di Conte al Siena, che ha ammesso di essere stato lui stesso a dare incarico a Carobbio per “sistemare” la gara Siena-Albinoleffe, cosa per cui Stellini è stato sospeso per due anni e mezzo, e la cui vicenda è forse l’unico vero elemento significativo dell’inchiesta della disciplinare, anche perché Stellini era fino allo scorso anno assistente di Conte alla Juve), la Disciplinare, non riuscendo a dimostrare concretamente che Conte sapesse le stesse cose che sapeva Stellini, si arrampica sugli specchi e dice che “ipotizzare che i componenti dello staff tecnico o la squadra prendessero decisioni a insaputa di Conte non è oggettivamente credibile” in quanto Conte, come è noto, sarebbe “un accentratore”. Insomma, solita storia: non poteva non sapere, mister Conte. Il principio del “non poteva non sapere”, però, e qui che si tratti di giustizia sportiva o di giustizia penale poco camhia, è uno degli orrori della giustizia italiana: non poteva non sapere significa che avrebbe potuto non sapere ma non è credibile che non sapesse e che dunque suvvia non prendiamoci per il culo è ovvio che sapeva non raccontiamo favole. I magistrati però, come è noto, si dovrebbero occupare di prove, e non di logica o di filosofia, mentre invece la cifra dell’inchiesta su Conte è proprio quella: logica. Non poteva non sapere della combine; non poteva non sapere della gara truccata; non poteva non sapere delle scommesse; non poteva non poteva non poteva. E invece forse, poteva chissà. Ecco. Questo è quanto. Questo è quello che dicono le carte. Nulla di più nulla di meno. Solo un processo debole, e come molti, moltissimi altri verrà probabilmente smontato in appello. Ma chissà, la giustizia sportiva, purtroppo, in Italia funziona più o meno come la giustizia cinese: certezza della pena sicuro, certezza del giusto processo purtroppo un po’ meno
- FOGLIO QUOTIDIANO