Helenio, Liedholm e oggi de Boer: ecco perché la Serie A guarda agli stranieri
L’arrivo nel nostro campionato di Frank De Boer all’Inter ripropone nel calcio italiano la questione affascinante degli allenatori stranieri in Italia. Il tecnico è il 142° allenatore straniero e il secondo olandese (dopo Seedorf) a incrementare la lista delle 23 nazionalità internazionali che hanno allenato nella nostra Serie A dall’inizio del girone unico 1929-30. Il tema affascina e pone questioni interessanti: perché le società italiane scelgono un allenatore straniero? Si tratta di un’esterofilia effimera oppure della volontà di arricchire le proprie conoscenze e quelle del campionato sperimentando stili diversi? La risposta per capire le scelte di questi ultimi anni sta nella storia degli allenatori stranieri in Italia nelle tre principali epoche in cui questa esperienza tecnica di mescolanza tra lo stile europeo e quello italiano si è sviluppata come modello (cioè come istituto tecnico riconosciuto dal nostro calcio). Si trova nei fatti del campionato un ragionamento chiaro: la scelta da parte delle società di arricchire la discussione tecnica e le conoscenze del football italiano.
L'EPOCA INGLESE - La prima epoca fu quella degli allenatori austriaci, ungheresi e inglesi che arrivarono per contribuire alla costruzione sia del campionato sul piano organizzativo sia dei primi importanti sistemi di gioco. Gli inglesi (13 nel girone unico) con Garbutt introdussero nella costruzione di giocatori e squadre: il professionismo; la cura della preparazione fisica d’avanguardia; il dribbling che portò al gioco sulle ali e al colpo di testa come gesto tecnico riconosciuto. Questo influenzò in parte le nostre squadre verso il gioco fisico e acrobatico. Se abbiamo avuto grandi ali e grandi centravanti completi lo dobbiamo anche a questa impostazione inglese che noi abbiamo rifinito nella direzione della qualità, con l’estro e la fantasia, la classe dei Conti, dei Causio, dei Domenghini, dei Donadoni o con la forza acrobatica dei Riva, dei Chinaglia, dei Vieri. C’è anima inglese in questi due ruoli che hanno fatto la nostra storia e le nostre vittorie.
La scelta di allenatori ungheresi (41 in serie A più di tutti gli altri stranieri) e austriaci (15) avvenne negli anni ’20-‘30 per la fama del calcio danubiano esportatore di un gioco raffinato. La vicinanza geografica e il fascino internazionale costituivano per le società di allora, la base sulla quale costruire un campionato in grado di esprimere uno stile di gioco anche molto tecnico. Il grande Peppino Meazza e l’allenatore Arpad Weisz (con Liedholm gli unici allenatori stranieri a vincere il campionato in due piazze diverse) furono la classe e la logica di questa seconda mescolanza del calcio italiano: talento puro di strada italiano rifinito da ricercatezze tecniche ungheresi. La Serie A che di oggi è stata fondata su questo primo modello multiculturale: l’attenzione alla tecnica e l’introduzione di un ordine tattico di matrice danubiana così come, la cura del gesto atletico e della preparazione fisica di stampo inglese. Facciamo attenzione a questo doppio modello internazionale riconosciuto che importammo perché ci spiegherà anche le scelte degli ultimi cinque anni in Serie A. I Felsner e i Weisz contribuirono alla costruzione delle squadre italiane sul piano dei fondamentali; dello studio dei giocatori; delle schede personalizzate; del concetto di divisione dei ruoli e degli spostamenti in campo. Tutto questo non è forse calcio moderno? E non è sperimentazione e arricchimento? Sì, è sperimentazione e grande calcio di mescolanza.
Il campionato dunque, tra il 1929 e il 1952, ha dato anche il tratto di quest’altra costruzione: il carattere flessibile degli allenatori stranieri capaci di proporre i migliori talenti, le migliori idee di scuole diverse e di unirle con quella italiana contribuendo enormemente alla crescita e allo sviluppo del campionato. La flessibilità dell’allenatore straniero che introduce innovazioni anche eretiche nell’ortodossia e la sua capacità di discuterle tecnicamente con gli allenatori italiani con la polemica e lo studio delle squadre è il modello che permette l’accrescimento del campionato e dei suoi protagonisti. Questo certifica l’importanza e il valore di avere tra le fila personaggi che la pensano in modo differente.
La seconda epoca è stata quella del periodo 1958-1965, dove il contributo degli allenatori stranieri è stato delegato agli argentini (21 in A ), ai cechi e slovacchi e agli slavi (11). Questi allenatori (tra cui Sarosi, Carniglia) hanno contribuito alla ricerca e alla valorizzazione del talento in un campionato che stava cambiando pelle passando dal calcio estetico del goal a quello tattico del grande calcio all’italiana. E’ un contributo da non sottovalutare, perché un ulteriore perfezionamento della tecnica servirà come forte differenza dentro un campionato strategico come quello degli anni ’60-’70.
La terza epoca che va dal 1965 al 1992 è stata quella degli allenatori stranieri d’Italia: i Lorenzo, i Liedholm, i Pesaola, i Vycpalek, i Boskov. Tutti hanno giocato in Italia e hanno maturato da noi l’idea di allenare. Questi grandi personaggi hanno arricchito la discussione tecnica con i nostri grandi allenatori ponendo al campionato ancora una volta la questione della flessibilità. Nessuno di loro ha rinunciato mai a proporre un calcio europeo ma ciascuno l’ha fatto introducendo nelle pieghe delle loro squadre concetti flessibili e adattamenti italiani. Il grande Liedholm ha introdotto la zona lenta e proposto il miglioramento tecnico durante gli allenamenti; ha scoperto talenti; ha costituito un fenomeno di calcio diverso dalla tradizione anni ’70-‘80 ma che ha spinto gli allenatori italiani a perfezionarsi e migliorare il calcio all’italiana tendendolo verso la sua modernità degli anni ‘90. Il purista svedese Eriksson, con la sua zona pressing attuata a metà anni ’80, nel calcio dell’1-0 ha stimolato la formazione pratica di Sacchi e di conseguenza è stato base storica dello scontro ideologico tra europeisti e italianisti del gioco.
Uno scontro che ha portato il calcio italiano a ripensarsi e a vincere in campo internazionale tanto con un sistema quanto con l’altro, nel segno della sperimentazione anche controversa ma innovatrice. Tra queste due fasi c’è stato un prima, Helenio Herrera (nella Hall of Fame degli allenatori italiani), e un dopo José Mourinho. L’iperbole argentina degli anni ’60 ha dato centralità alla figura dell’allenatore creando così un dibattito polemico sulle scelte, l’allenamento mentale e le metodologie di preparazione. Quarantotto anni dopo, Mou ha ripreso questo schema di sintesi e l’ha rimesso al centro: il come faccio le cose, lo sviluppo, i perché e l’idea di uno scontro ideologico che serve affinché il campionato non si appiattisca.
Oggi abbiamo tre allenatori stranieri e siamo nella media degli ultimi 16 anni di calcio italiano (unica eccezione il 2013-14 con 6 allenatori) è il risultato figlio delle grandi vittorie degli anni ’90 che ci ha resi autonomi e ha sviluppato con grandi allenatori italiani il calcio all’italiana in chiave moderna, formatisi anche attraverso insegnamenti stranieri: Capello (Herrera, Vycpalek, Liedholm suoi allenatori) e Lippi, allievo del grande maestro Bernardini che aveva dentro di sè calcio italiano, inglese e mitteleuropeo frutto del decennio ’30-’40 in cui giocò.
Negli ultimi cinque anni il nostro calcio ha ripreso il modello della sperimentazione degli anni ’30 con i canoni di oggi, scegliendo l’attuale concetto europeo del possesso del pallone e della flessibilità degli schemi. Una fase di stallo nella tecnica individuale ha portato a pensare alla cura del gioco. Allora erano austriaci, ungheresi e inglesi; oggi sono spagnoli, portoghesi e olandesi. Perché? Secondo le società che li ingaggiano c’è la necessità di ridare al campionato una fase storica di rimescolamento delle idee, attraverso: il modello radicale del possesso palla del calcio spagnolo sebbene in Italia i 4 allenatori spagnoli non abbiano costituito una scuola (Mirò, Suarez, Luis Enrique, Benitez) ma tutte le squadre tendono comunque a tenere il pallone; il modello portoghese della flessibilità nelle posizioni (i giocatori d’interscambio di Sousa) e quello di oggi, olandese che con De Boer vuole curare la preparazione atletica specializzata e la tattica d’attacco. L’idea è buona e non può fare che bene al nostro calcio in ogni caso sia che vada in porto, sia che non riesca purché l’incontro tra il calcio italiano di grande tradizione conservativa e gli europei radicali sia nel segno della flessibilità anticamera eccezionale della sperimentazione tecnica.
L'EPOCA INGLESE - La prima epoca fu quella degli allenatori austriaci, ungheresi e inglesi che arrivarono per contribuire alla costruzione sia del campionato sul piano organizzativo sia dei primi importanti sistemi di gioco. Gli inglesi (13 nel girone unico) con Garbutt introdussero nella costruzione di giocatori e squadre: il professionismo; la cura della preparazione fisica d’avanguardia; il dribbling che portò al gioco sulle ali e al colpo di testa come gesto tecnico riconosciuto. Questo influenzò in parte le nostre squadre verso il gioco fisico e acrobatico. Se abbiamo avuto grandi ali e grandi centravanti completi lo dobbiamo anche a questa impostazione inglese che noi abbiamo rifinito nella direzione della qualità, con l’estro e la fantasia, la classe dei Conti, dei Causio, dei Domenghini, dei Donadoni o con la forza acrobatica dei Riva, dei Chinaglia, dei Vieri. C’è anima inglese in questi due ruoli che hanno fatto la nostra storia e le nostre vittorie.
La scelta di allenatori ungheresi (41 in serie A più di tutti gli altri stranieri) e austriaci (15) avvenne negli anni ’20-‘30 per la fama del calcio danubiano esportatore di un gioco raffinato. La vicinanza geografica e il fascino internazionale costituivano per le società di allora, la base sulla quale costruire un campionato in grado di esprimere uno stile di gioco anche molto tecnico. Il grande Peppino Meazza e l’allenatore Arpad Weisz (con Liedholm gli unici allenatori stranieri a vincere il campionato in due piazze diverse) furono la classe e la logica di questa seconda mescolanza del calcio italiano: talento puro di strada italiano rifinito da ricercatezze tecniche ungheresi. La Serie A che di oggi è stata fondata su questo primo modello multiculturale: l’attenzione alla tecnica e l’introduzione di un ordine tattico di matrice danubiana così come, la cura del gesto atletico e della preparazione fisica di stampo inglese. Facciamo attenzione a questo doppio modello internazionale riconosciuto che importammo perché ci spiegherà anche le scelte degli ultimi cinque anni in Serie A. I Felsner e i Weisz contribuirono alla costruzione delle squadre italiane sul piano dei fondamentali; dello studio dei giocatori; delle schede personalizzate; del concetto di divisione dei ruoli e degli spostamenti in campo. Tutto questo non è forse calcio moderno? E non è sperimentazione e arricchimento? Sì, è sperimentazione e grande calcio di mescolanza.
Il campionato dunque, tra il 1929 e il 1952, ha dato anche il tratto di quest’altra costruzione: il carattere flessibile degli allenatori stranieri capaci di proporre i migliori talenti, le migliori idee di scuole diverse e di unirle con quella italiana contribuendo enormemente alla crescita e allo sviluppo del campionato. La flessibilità dell’allenatore straniero che introduce innovazioni anche eretiche nell’ortodossia e la sua capacità di discuterle tecnicamente con gli allenatori italiani con la polemica e lo studio delle squadre è il modello che permette l’accrescimento del campionato e dei suoi protagonisti. Questo certifica l’importanza e il valore di avere tra le fila personaggi che la pensano in modo differente.
La seconda epoca è stata quella del periodo 1958-1965, dove il contributo degli allenatori stranieri è stato delegato agli argentini (21 in A ), ai cechi e slovacchi e agli slavi (11). Questi allenatori (tra cui Sarosi, Carniglia) hanno contribuito alla ricerca e alla valorizzazione del talento in un campionato che stava cambiando pelle passando dal calcio estetico del goal a quello tattico del grande calcio all’italiana. E’ un contributo da non sottovalutare, perché un ulteriore perfezionamento della tecnica servirà come forte differenza dentro un campionato strategico come quello degli anni ’60-’70.
La terza epoca che va dal 1965 al 1992 è stata quella degli allenatori stranieri d’Italia: i Lorenzo, i Liedholm, i Pesaola, i Vycpalek, i Boskov. Tutti hanno giocato in Italia e hanno maturato da noi l’idea di allenare. Questi grandi personaggi hanno arricchito la discussione tecnica con i nostri grandi allenatori ponendo al campionato ancora una volta la questione della flessibilità. Nessuno di loro ha rinunciato mai a proporre un calcio europeo ma ciascuno l’ha fatto introducendo nelle pieghe delle loro squadre concetti flessibili e adattamenti italiani. Il grande Liedholm ha introdotto la zona lenta e proposto il miglioramento tecnico durante gli allenamenti; ha scoperto talenti; ha costituito un fenomeno di calcio diverso dalla tradizione anni ’70-‘80 ma che ha spinto gli allenatori italiani a perfezionarsi e migliorare il calcio all’italiana tendendolo verso la sua modernità degli anni ‘90. Il purista svedese Eriksson, con la sua zona pressing attuata a metà anni ’80, nel calcio dell’1-0 ha stimolato la formazione pratica di Sacchi e di conseguenza è stato base storica dello scontro ideologico tra europeisti e italianisti del gioco.
Uno scontro che ha portato il calcio italiano a ripensarsi e a vincere in campo internazionale tanto con un sistema quanto con l’altro, nel segno della sperimentazione anche controversa ma innovatrice. Tra queste due fasi c’è stato un prima, Helenio Herrera (nella Hall of Fame degli allenatori italiani), e un dopo José Mourinho. L’iperbole argentina degli anni ’60 ha dato centralità alla figura dell’allenatore creando così un dibattito polemico sulle scelte, l’allenamento mentale e le metodologie di preparazione. Quarantotto anni dopo, Mou ha ripreso questo schema di sintesi e l’ha rimesso al centro: il come faccio le cose, lo sviluppo, i perché e l’idea di uno scontro ideologico che serve affinché il campionato non si appiattisca.
Oggi abbiamo tre allenatori stranieri e siamo nella media degli ultimi 16 anni di calcio italiano (unica eccezione il 2013-14 con 6 allenatori) è il risultato figlio delle grandi vittorie degli anni ’90 che ci ha resi autonomi e ha sviluppato con grandi allenatori italiani il calcio all’italiana in chiave moderna, formatisi anche attraverso insegnamenti stranieri: Capello (Herrera, Vycpalek, Liedholm suoi allenatori) e Lippi, allievo del grande maestro Bernardini che aveva dentro di sè calcio italiano, inglese e mitteleuropeo frutto del decennio ’30-’40 in cui giocò.
Negli ultimi cinque anni il nostro calcio ha ripreso il modello della sperimentazione degli anni ’30 con i canoni di oggi, scegliendo l’attuale concetto europeo del possesso del pallone e della flessibilità degli schemi. Una fase di stallo nella tecnica individuale ha portato a pensare alla cura del gioco. Allora erano austriaci, ungheresi e inglesi; oggi sono spagnoli, portoghesi e olandesi. Perché? Secondo le società che li ingaggiano c’è la necessità di ridare al campionato una fase storica di rimescolamento delle idee, attraverso: il modello radicale del possesso palla del calcio spagnolo sebbene in Italia i 4 allenatori spagnoli non abbiano costituito una scuola (Mirò, Suarez, Luis Enrique, Benitez) ma tutte le squadre tendono comunque a tenere il pallone; il modello portoghese della flessibilità nelle posizioni (i giocatori d’interscambio di Sousa) e quello di oggi, olandese che con De Boer vuole curare la preparazione atletica specializzata e la tattica d’attacco. L’idea è buona e non può fare che bene al nostro calcio in ogni caso sia che vada in porto, sia che non riesca purché l’incontro tra il calcio italiano di grande tradizione conservativa e gli europei radicali sia nel segno della flessibilità anticamera eccezionale della sperimentazione tecnica.