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    Ha preso per mano la morte come una sposa. Così se ne è andato il patriarca Eugenio Scalfari

    Ha preso per mano la morte come una sposa. Così se ne è andato il patriarca Eugenio Scalfari

    • Marco Bernardini
      Marco Bernardini
    “Papà, hai paura della morte?”. È l’ultima domanda che, con curiosa tenerezza, gli fanno Enrica e Donata le sue due figlie. La risposta arriva con un sorriso e un gesto della mano. Le dita che si chiudono nell’aria quasi volessero afferrare, intrecciandosi, quelle della sua nuova sposa che era arrivata a prenderlo per accompagnarlo in quella dimensione spazio-temporale dove vanno a vivere i grandi dopo aver soggiornato nel formicaio terrestre.

    Una partenza dolce e priva di scossoni, tanto diversa dalla lotta continua che aveva scelto di frequentare per quasi un secolo allo scopo di dare un senso di costrittiva compiutezza alla sua esistenza di uomo pensante e di cittadino del mondo. Un combattente a prescindere anche sognatore e visionario, come il suo compagno di banco alle scuole medie di Sanremo Italo Calvino, destinato a trasformarsi strada facendo in un patriarca con la barba bianca e illustrato da mille rughe sulla fronte che lo facevano somigliare tantissimo al suo amico fedele Gianni Agnelli. Era Eugenio Scalfari, il Direttore per definizione. L’ultimo gigante della cultura italiana che ancora il nostro Paese poteva mostrare e vantare come simbolo di un reale grandeur nazionale.

    Di lui resteranno opere (tantissime) e umane omissioni (assai rare, per la verità). Per lui oggi, giorno del suo commiato, verranno scritti fiumi di parole perché la sua vita professionale è scandita da un numeri incredibile di avvenimenti da lui stesso provocati. Dal “Mondo” di Pannunzio, dopo essere stato cacciato dal fascista “Roma” (aver flirtato per un poco con Mussolini lo turbò per tutta la sua esistenza), all’ultima e recente esperienza del documentario “Sentimental Journey”, passando attraverso l’Espresso degli anni migliori e soprattutto da quella “Repubblica” del quale fu padre senza voler essere intellettualmente padrone. Sentinella e difensore della verità, semmai, proprio come il suo editore Caracciolo principe illuminato e “rosso”. Un’intera orchestra di fiati, percussioni, arpe e cori per concerti che non erano mai uno identico all’altro intervallati da soste per riprendere il fiato magari passeggiando in via Veneto.

    Lo canteranno mille e più di mille. Lo celebrerà la Storia. Personalmente lo posso soltanto ringraziare con tutto il cuore. Per avermi concesso, nel lontanissimo 1970, di entrare come ragazzo di bottega nella redazione dell’Espresso Economia di via Cino Del Duca a Milano dove insieme con lui lavoravano altri pezzi da novanta come Paolo Mieli, Giuseppe Turani, Gabriele Invernizzi e Pietro Banas coordinati dalla vulcanica svizzera Lalla Golderer. Anni complicati e anche violenti, con i fascisti sotto il portone pronti ad aggredire chi camminava da solo vestito con l’eskimo, ma fondamentali per imparare il mestiere osservando il futuro patriarca impegnato a dirigere il suo concerto senza fine. Quello che gli ha permesso di stringere la mano, sorridendo, alla sua nuova e ultima sposa prima di volare via con lei.
     

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