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Gervinho: 'Il gol di Weah un capolavoro, ma anche il mio... Totti mi mandava in porta con gli occhi'
Un gol fantastico, che ha riportato alla mente tante cavalcate solitarie del passato più o meno recente culminate con una rete. Dopo la prodezza contro il Cagliari, Gervinho è diventato senza ombra di dubbio l'uomo del momento al Parma e a La Gazzetta dello Sport ha raccontato le emozioni provate e il periodo che sta attraversando. A partire dal paragone col gol che un certo George Weah realizzò a San Siro contro il Verona nel '96: "Avevo 9 anni: a casa mia, in Costa d’Avorio, non avevamo la tv. Era già tanto se c’era qualcosa da mangiare... Comunque quello di Weah è un capolavoro, anche se pure il mio contro il Cagliari, non è malaccio, vero?".
Come le è venuto in mente?
"Non ci ho pensato, tutto qui. Il mio gioco è velocità e fantasia. Istinto puro. E quando ho visto la gente felice per il mio gol, per me è stato il regalo più bello. Divertire chi viene a vedermi è il mio obiettivo".
Quando è uscito dal campo il pubblico del Tardini le ha riservato la standing ovation: tra lei e Parma è ormai amore?
"Mi hanno accolto benissimo. So che la gente, qui, ha sofferto molto per il calcio negli ultimi anni dopo il fallimento e le partite nei dilettanti. Io sono venuto perché il ds Faggiano mi ha corteggiato per parecchio tempo, neanche fossi stato una bella donna, mi ha fatto sentire importante e adesso tocca a me restituire quell’affetto che ho ricevuto, e ricevo ogni giorno".
Il primo pensiero dopo il gol?
"Mi sono tornati in mente i miei inizi, nei campetti di Abidjan, in Costa d’Avorio. Giocavamo scalzi, le scarpe ce la davano soltanto dopo tre anni di allenamenti e se superavamo un certo numero di test".
Che tipo di test?
"Il primo era: cinquanta colpi di testa contro il muro senza far cadere il pallone. Poi cinquanta colpi con la coscia. Poi con il piede. Prima il destro e poi il sinistro. L’accademia di Abidjan è stata la mia scuola di educazione. A 16 anni mi hanno consegnato le scarpe e la maglietta con il nome Gervinho sulla schiena. Potete immaginare come mi sentivo: sulle nuvole".
A diciotto lo sbarco in Europa. Come fu?
"Bello, ma difficile. Molto difficile. Andai in Belgio, al Beveren. Sentivo la nostalgia dell’Africa, la sera mi coricavo e mi dicevo: “Resisti, non puoi permetterti di essere triste: a te, attraverso il calcio, hanno dato una possibilità, mentre altri non hanno nemmeno quella”. Ho tenuto duro, e poi ho incontrato Rudi Garcia".
Il suo secondo papà, vero?
"Proprio così. Tutto quello che so fare sul campo me l’ha insegnato lui. E con il Lilla, quando abbiamo vinto campionato e Coppa di Francia nel 2011, mamma mia che divertimento!".
E quando l’ha chiamata alla Roma non ha avuto dubbi: via dall’Arsenal e sbarco nella capitale.
"Come si fa a dire di no a Rudi? A Roma sono stato benissimo. E ho giocato con il migliore degli ultimi trent’anni: Totti. Francesco è un re che non si comporta come tale, questa è la dote più bella. Non faceva pesare il suo ruolo, la sua classe: scherzava con tutti, raccontava le barzellette, organizzava cene. Un grande".
E com’era giocare con Totti?
"La cosa più facile del mondo. Lui ti mandava in porta con gli occhi".
In che senso? "Ti faceva capire con uno sguardo dove avrebbe messo il pallone e tu non avevi che da correre, correre, correre. Facile, no? Garcia mi diceva sempre: se Totti è qui, tu stai dall’altra parte e accentrati, prima o poi il pallone ti arriva. Aveva ragione".
Con la maglia della Roma ha vissuto anche un episodio di razzismo a Rotterdam...
"Partita di Europa League, mi lanciarono una banana dagli spalti. Ma non parlo volentieri di questo argomento. Il razzismo è un problema per chi lo prova, molto più che per chi lo subisce. Mi accorgo che c’è, vedo le facce di chi guarda i migranti sbarcare in Europa e non tutti sono contenti. Però bisogna sapere che, se in Africa non c’è lavoro e non c’è da mangiare, questi uomini e queste donne qualcosa dovranno pur inventarsi. A quelli invece che vengono qui pensando di trovare la terra dell’oro e i soldi facili, dico che anche in Europa ci sono problemi e che ci si deve rimboccare le maniche per portare a casa un pezzo di pane".
Lei, la terra dell’oro, l’ha trovata in Cina: ingaggio sontuoso, no?
"Effettivamente guadagnavo parecchio, ma mica rubavo: mi pagavano tanto (8 milioni all’anno, ndr) in base a un accordo. Per me il calcio è divertimento, gioia, e anche lavoro: io gioco per portare a casa lo stipendio con il quale la mia famiglia vive. Comunque in Cina sono stato bene, ho ancora tanti amici laggiù. È stata un’esperienza particolare, una specie di scoperta. Ho conosciuto una mentalità diversa da quella africana e europea, ho imparato a vivere con persone che hanno usi e costumi differenti".
Poi ha deciso di tornare in Italia, in un calcio più competitivo.
"Il Parma mi ha cercato e a me stava bene come destinazione. Non mi sento declassato perché prima lottavo per vincere e ora devo guadagnarmi la salvezza. Restare in A, per noi, è come conquistare lo scudetto. E vi garantisco che ci riusciremo. Abbiamo un bel gruppo, e sentiamo il sostegno alle spalle una città intera. Il Parma non è una piccola squadra e io voglio riportarla dov’è stata tanto tempo fa, in cima all’Europa".
Non esageriamo, i dirigenti si accontentano della salvezza. "Sognare è gratis, no?".
Come le è venuto in mente?
"Non ci ho pensato, tutto qui. Il mio gioco è velocità e fantasia. Istinto puro. E quando ho visto la gente felice per il mio gol, per me è stato il regalo più bello. Divertire chi viene a vedermi è il mio obiettivo".
Quando è uscito dal campo il pubblico del Tardini le ha riservato la standing ovation: tra lei e Parma è ormai amore?
"Mi hanno accolto benissimo. So che la gente, qui, ha sofferto molto per il calcio negli ultimi anni dopo il fallimento e le partite nei dilettanti. Io sono venuto perché il ds Faggiano mi ha corteggiato per parecchio tempo, neanche fossi stato una bella donna, mi ha fatto sentire importante e adesso tocca a me restituire quell’affetto che ho ricevuto, e ricevo ogni giorno".
Il primo pensiero dopo il gol?
"Mi sono tornati in mente i miei inizi, nei campetti di Abidjan, in Costa d’Avorio. Giocavamo scalzi, le scarpe ce la davano soltanto dopo tre anni di allenamenti e se superavamo un certo numero di test".
Che tipo di test?
"Il primo era: cinquanta colpi di testa contro il muro senza far cadere il pallone. Poi cinquanta colpi con la coscia. Poi con il piede. Prima il destro e poi il sinistro. L’accademia di Abidjan è stata la mia scuola di educazione. A 16 anni mi hanno consegnato le scarpe e la maglietta con il nome Gervinho sulla schiena. Potete immaginare come mi sentivo: sulle nuvole".
A diciotto lo sbarco in Europa. Come fu?
"Bello, ma difficile. Molto difficile. Andai in Belgio, al Beveren. Sentivo la nostalgia dell’Africa, la sera mi coricavo e mi dicevo: “Resisti, non puoi permetterti di essere triste: a te, attraverso il calcio, hanno dato una possibilità, mentre altri non hanno nemmeno quella”. Ho tenuto duro, e poi ho incontrato Rudi Garcia".
Il suo secondo papà, vero?
"Proprio così. Tutto quello che so fare sul campo me l’ha insegnato lui. E con il Lilla, quando abbiamo vinto campionato e Coppa di Francia nel 2011, mamma mia che divertimento!".
E quando l’ha chiamata alla Roma non ha avuto dubbi: via dall’Arsenal e sbarco nella capitale.
"Come si fa a dire di no a Rudi? A Roma sono stato benissimo. E ho giocato con il migliore degli ultimi trent’anni: Totti. Francesco è un re che non si comporta come tale, questa è la dote più bella. Non faceva pesare il suo ruolo, la sua classe: scherzava con tutti, raccontava le barzellette, organizzava cene. Un grande".
E com’era giocare con Totti?
"La cosa più facile del mondo. Lui ti mandava in porta con gli occhi".
In che senso? "Ti faceva capire con uno sguardo dove avrebbe messo il pallone e tu non avevi che da correre, correre, correre. Facile, no? Garcia mi diceva sempre: se Totti è qui, tu stai dall’altra parte e accentrati, prima o poi il pallone ti arriva. Aveva ragione".
Con la maglia della Roma ha vissuto anche un episodio di razzismo a Rotterdam...
"Partita di Europa League, mi lanciarono una banana dagli spalti. Ma non parlo volentieri di questo argomento. Il razzismo è un problema per chi lo prova, molto più che per chi lo subisce. Mi accorgo che c’è, vedo le facce di chi guarda i migranti sbarcare in Europa e non tutti sono contenti. Però bisogna sapere che, se in Africa non c’è lavoro e non c’è da mangiare, questi uomini e queste donne qualcosa dovranno pur inventarsi. A quelli invece che vengono qui pensando di trovare la terra dell’oro e i soldi facili, dico che anche in Europa ci sono problemi e che ci si deve rimboccare le maniche per portare a casa un pezzo di pane".
Lei, la terra dell’oro, l’ha trovata in Cina: ingaggio sontuoso, no?
"Effettivamente guadagnavo parecchio, ma mica rubavo: mi pagavano tanto (8 milioni all’anno, ndr) in base a un accordo. Per me il calcio è divertimento, gioia, e anche lavoro: io gioco per portare a casa lo stipendio con il quale la mia famiglia vive. Comunque in Cina sono stato bene, ho ancora tanti amici laggiù. È stata un’esperienza particolare, una specie di scoperta. Ho conosciuto una mentalità diversa da quella africana e europea, ho imparato a vivere con persone che hanno usi e costumi differenti".
Poi ha deciso di tornare in Italia, in un calcio più competitivo.
"Il Parma mi ha cercato e a me stava bene come destinazione. Non mi sento declassato perché prima lottavo per vincere e ora devo guadagnarmi la salvezza. Restare in A, per noi, è come conquistare lo scudetto. E vi garantisco che ci riusciremo. Abbiamo un bel gruppo, e sentiamo il sostegno alle spalle una città intera. Il Parma non è una piccola squadra e io voglio riportarla dov’è stata tanto tempo fa, in cima all’Europa".
Non esageriamo, i dirigenti si accontentano della salvezza. "Sognare è gratis, no?".