George Best, il talento fragile: 14 anni senza il campione che ha vissuto la vita come una finale
Scrivere un articolo su (o in memoria di) George Best potrebbe apparire un esercizio letterario fin troppo semplice. Basterebbe attaccare e chiudere con una delle sue (spesso inflazionate) frasi ad effetto e metà del lavoro sarebbe già fatto. Non sarebbe difficile infatti attingere a piene mani dal suo vastissimo catalogo di dichiarazioni pungenti e dissacranti ormai passate alla storia: "Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci… Tutti gli altri li ho sperperati"; oppure "Ho sempre voluto essere il migliore in tutto: in campo il più forte, al bar quello che beveva di più"; e ancora "Se io fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé".
LA PARTITA DELLA STORIA - Tutti hanno parlato di George Best. Il personaggio, in effetti, si presta molto bene ai racconti romanzati e ricamati ad arte. Eppure, per raccontare di Georgie, per capirne fino in fondo l’essenza potrebbe essere sufficiente recuperare la partita più importante della sua storia: finale di Coppa dei Campioni 1968. A Wembley scendono in campo Manchester United e Benfica. Gli inglesi tornano a giocarsi un titolo europeo dopo il disastro aereo del 1958; i portoghesi là davanti hanno Eusebio, uno dei calciatori più talentuosi di tutti i tempi.
Best è per distacco il migliore in campo (nonostante la doppietta di Bobby Charlton). Quella sera, davanti a 92.000 spettatori, il ‘quinto Beatle’ si è, per certi versi, messo a nudo, mostrandosi per quello che è: come calciatore e come uomo.
GENIO E SREGOLATEZZA - Georgie è immarcabile: per fermarlo i portoghesi sono costretti a spendere falli anche piuttosto cattivi. Lui ci sguazza: continua a puntare l’uomo, salta l’avversario con cambi di passo e finte da campione; si fa stendere e poi reagisce andando a muso duro per riscaldare l’atmosfera come fosse in un pub dei sobborghi di Manchester. È irriverente, quasi spocchioso. Segna saltando Henrique, il portiere del Benfica, con un imbarazzante sombrero e insaccando a porta vuota. Best è questo in fondo: genio e sregolatezza, carisma ed estrema fragilità, leggerezza e insofferenza, bellezza e irriverenza. Provocatore non solo nelle reazioni scomposte, ma anche nel modo di giocare: gioca a 100 all’ora, rischia ogni giocata come stesse dribblando i suoi coetanei tra i vicoli di Belfast. Non sente la pressione: sa di essere il più forte e deve dimostrarlo, prima di tutto a sé stesso. Come fosse l’ultima partita della sua vita.
NESSUNO COME LUI – La vincerà da solo quella partita. Troppo forte, troppo affamato. Perderà, come lui stesso dichiarò, la partita più importante: quella contro l’alcool. Il personaggio di Best sembra essere scritturato precisamente lungo queste direttrici che ne hanno drammaticamente segnato la fragile vita: il fascino, il sarcasmo, l’autoironia, il talento infinito, la polemica, ma soprattutto le donne, l'alcol, gli eccessi, la vita vissuta senza regole e senza limiti. Proprio come quella partita di Coppa campioni contro il Benfica. George Best è stato tutto e il contrario di tutto: è stato il talento più cristallino della sua epoca e senza dubbio il più sprecato di tutti i tempi. È stato l'idolo che tutti avrebbero voluto essere, ma l'uomo i cui panni nessuno avrebbe voluto vestire. George Best è stato la leggenda piegata alla fragilità dell’uomo. Troppo fragile per essere un campione, troppo forte per non esserlo.