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Genoamania: non basta un giorno per costruire una casa
Le aspettative che la tifoseria del Genoa ripone nella propria squadra sono mutevoli e rapide come le nuvole primaverili sui cieli d'Irlanda. Un'altalena di sentimenti che oscillano da un estremo all'altro dello spettro emozionale umano. Una dicotomia talmente esasperata da rasentare le più gravi forme di bipolarismo. E così dal sabato che profuma d'Europa, grazie al bel pareggio con i campioni d'Italia, al venerdì che odora di retrocessione, dopo una sconfitta in casa di una diretta concorrente, il passo è minimo. Questo malgrado si sia soltanto alla quinta tappa di una maratona lunghissima nella quale nessun partecipante ha ancora espresso i suoi reali valori.
Il tifo del resto è materia emotiva e irrazionale. Un sentimento guidato più dalla pancia che dalla testa. E quindi, in quanto tale, soggetto a inevitabili sobbalzi d'umore e a giudizi all'apparenza definitivi che si rivelano effimeri quanto l'esistenza di una farfalla.
Ciò che spesso manca a chi ha un pallone al centro del cuore è la pazienza e la serenità per attendere la maturazione dei frutti seminati. Roma non è stata costruita in un giorno, dicevano i latini. Figuriamoci se può esserlo una squadra che fino a poche settimane fa frequentava i polverosi campi della cadetteria e che in estate è cambiata tantissimo. Il Grifone visto a Lecce è sembrato la copia forse perfino imbruttita di quello ammirato (si fa per dire!) a Torino prima della sosta. Una squadra molle, incapace di far gioco, impaurita dall'avversario di turno e guardinga al limite del lecito. Un atteggiamento che (forse) sarebbe stato accettabile soltanto se dall'altra parte del campo ci fosse stata l'Olanda di Crujyff o il Brasile di Garrincha e che non si può giustificare soltanto con l'ingenua espulsione di Martìn. La quale per inciso appare più un'aggravante che un'attenuante. Ma il Via del Mare non è l'Amsterdam Arena, né il Maracanà. Eppure il Genoa è sceso in Salento con la speranza di chi considerava lo 0-0 l'unico risultato raggiungibile. Un errore imperdonabile, prontamente punito dal Lecce e anche un po' dalla malasorte. Un errore che, come sempre accade in questi casi, ha un unico grande artefice: colui che si siede in panchina.
I demeriti e gli sbagli, e forse anche i limiti attuali, di Alberto Gilardino nel KO di ieri sono evidenti. Così come lo sono stati nelle precedenti sconfitte stagionali e, parzialmente, anche nella vittoria svanita nel finale con il Napoli. Tuttavia l'idea di risolvere la questione facendo rotolare (metaforicamente, si intende) la testa del violinista nella cesta del patibolo non sembra quella ideale. Il Gila è un tecnico giovane, che si affaccia per la prima volta al massimo campionato. Non solo è normale che sbagli ma è addirittura giusto che lo faccia. Pagando dazio quanto succede e raccogliendo i frutti quanto azzecca le mosse vincenti. Ma l'ex centravanti è anche un allenatore con tante idee che promette di poter far bene se gli si lascia il tempo di farlo. Opportunità che non tutti i suoi predecessori, nell'ultimo decennio, hanno avuto. D'altronde l'obiettivo stagionale, a differenza di quanto pensano in molti, non è raggiungere un piazzamento europeo bensì salvarsi con relativa tranquillità, gettando le basi per l'ambizioso futuro prospettato dalla 777. Ma se ad ogni partita storta si pretende di cacciare l'architetto il progetto è destinato a rimanere un disegno sulla carta.
E allora fiducia e pazienza nel lavoro di Gilardino. Ovviamente non in maniera illimitata ma in dose sufficiente a non gettare all'aria quanto di buono si è fatto in questi mesi. Senza farsi condizionare ogni domenica dal risultato.