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    Franklin Lobos: nessuna resa, mai, da Zamorano ai 33 chiusi nella miniera

    Franklin Lobos: nessuna resa, mai, da Zamorano ai 33 chiusi nella miniera

    • Remo Gandolfi
    “Quanti anni … anzi no! Quanti secoli sono passati da quando giocavo nella Serie A del mio Paese ?
    Ma soprattutto … siamo sicuri che questa sia la stessa vita?
    A volte non credo proprio.
    Guardo le poche foto che ho ancora in casa e faccio molta fatica a pensare che quello che vedo lì sia la stessa persona che vedo oggi riflessa allo specchio: doppio mento, rughe e una bella calvizie che avanza inesorabile.
    Giocavo a calcio.
    Ho giocato anche nel Cobresal. 
    Ed in quella squadra ho pure vinto un Campionato guadagnando la promozione nella PrimeraDivision del Cile.
    In quel periodo in squadra con noi c’era un ragazzino fenomenale: ogni volta che riceveva un pallone decente all’interno dell’area sapevi già come andava a finire: 
    …con il portiere che raccoglieva la palla dal fondo della rete!
    Si chiamava Ivan Zamorano ed ha scritto pagine importanti nella storia del calcio del mio Paese.
    Ecco … Io in quella vita lì giocavo a centrocampo.
    Correvo, correvo proprio come un matto. In campo lottavo come un guerriero Lakota e dove c’era il pallone ero, quasi sempre, li anch’io.
    Facevo anche gol. 
    Direi nemmeno tanto pochi per un centrocampista; anche se praticamente segnavo sempre e solo in unico modo: su calcio di punizione.
    Mi chiamavano “El mortero magico”.
    Tiravo di potenza (davvero tanta potenza) e, quando la palla superava la barriera, c’erano davvero tante possibilità che il portiere neppure la vedesse.
    So di tanti calciatori avversari che, a quei tempi, si inventavano ogni tipo di scusa pur di non andare in barriera.
    Sono arrivato perfino in Nazionale!
    Ho giocato diverse partite di qualificazione per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984; ma poi, a quelle Olimpiadi, ci andarono altri ed io mi accontentai di vedere i miei compagni alla tv.
    Ovvio, un po’ di delusione la provai, ma sapevo benissimo che c’erano giocatori più bravi e meritevoli del sottoscritto.
    E poi cos’era quel piccolo dispiacere in confronto alla gioia pazzesca, infinita ed indimenticabile provata solo 3 anni prima?!?! 
    Vi racconto cosa successe.
    Copiapò è una cittadina del nord del Paese.
    Si trova nel bel mezzo del deserto di Atacama.
    Io è lì che sono nato e cresciuto.
    Ci sono poche cose: il caldo, la polvere e le miniere.
    Con l’apertura di queste trappole per uomini, parlo delle miniere, arrivarono dalle mie parti il lavoro, un po’ di denaro e la possibilità di una vita più dignitosa.
    Con i soldi arrivati con l’apertura della miniera fu costruito un piccolo ma accogliente stadio e con lo stadio è nata anche una piccola squadra, piccola ma decente. Con me c’erano giocatori del valore di Ramon Climent, Mario Caneo e Diego Solis: amici veri, in campo e fuori dal campo.
    Squadra talmente “decente” che nell’anno di grazia 1981, nell’ultima partita in casa della stagione, noi del “Regional Atacama” arrivammo a disputare un match che mai avremmo pensato di giocare: quello che poteva significare la promozione nella Prima Divisione Cilena. 
    Un sogno da realizzare per la squadra, la regione e tutti gli abitanti di questa zona dimenticata da Dio e dal resto del Paese.
    Per tutti i lavoratori della miniera poi era molto di più di una semplice partita di calcio: era la rivincita.
    Significava tanta forza in più per tornare il giorno dopo a scavare laggiù in fondo, laggiù nel buco del culo del mondo.
    Io ero il capitano di quella squadra anche se a 24 anni ero addirittura uno dei più giovani.
    Ricordo che negli spogliatoi poco prima di scendere in campo regnava un silenzio totale, assoluto.
    Lo stesso silenzio a cui pensi di esserti abituato dopo aver vissuto tanti anni in un deserto.
    Le uniche parole che fummo in grado di scambiarci furono la promessa a noi stessi  che se avessimo vinto quella partita saremmo andati, tutti insieme, ai piedi del Santuario di San Pedro di Atacama.
    Lo stesso posto in cui le madri, le sorelle, le mogli e le fidanzate dei minatori vanno a pregare perché la terra restituisca loro, ogni giorno, i propri cari.
    Quei 90 minuti volarono via in un lampo.
    L’arbitro fischiò la fine.
    Avevamo vinto: Diego, Ramon, Mario, io e tutti gli altri.
    Bastò guardarci negli occhi.
    Sebbene fossimo tutti allo stremo delle forze non ci fu nemmeno bisogno di parlare.
    Non entrammo neppure negli spogliatoi.
    Ci incamminammo così, in maglietta e calzoncini verso il Santuario, lungo la Statale 5, nel caldo torrido di quel giorno, con la polvere del deserto che ci riempiva i polmoni.
    9 km da percorrere e dietro di noi, con noi, i nostri tifosi, il nostro popolo, festante e gioioso.
    In questa vita ora è invece è diverso.
    Oggi di anni ne ho 53 ed ho due figlie che studiano all’Università; purtroppo con il calcio in Cile negli anni ’80 non diventavi mica ricco.
    Ho provato a fare il taxista. 
    Guidare mi piace ma non si guadagna abbastanza.
    E così ora guido qualcos’altro e la strada che faccio è sempre la stessa.
    Tutti i santi giorni che il buon Dio manda in terra, più volte al giorno.
    Si, perché ora sono al volante di una specie di pulmino che porta i miei amici minatori fino a 700 metri sotto terra, a raschiare la roccia per 8 ore al giorno per cercare rame e oro.
    Sperando che queste ore passino in fretta per poter tornare alle nostre famiglie e alla luce del sole del deserto di Atacama.”


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    E’ il 5 agosto del 2010.
    Sono passati 29 anni da quel giorno meraviglioso, scolpito per sempre nella memoria di Franklin Lobos e di tutti gli abitanti di quella zona del Mondo dimenticata da Dio e dal resto del Cile.

    Franklin mette in moto la sua “camioneta” per andare, come ogni giorno, a recuperare i suoi amici e colleghi minatori che stanno terminando il loro turno.
    È con un collega a fianco e stanno scendendo giù per questa lunga spirale che lì porterà laggiù in fondo, a 700 metri sotto terra.
    Li porta a raccogliere i suoi compagni che vedono in Franklin Lobos una specie di moderno Caronte, il loro traghettatore che li riconduce ogni giorno alla vita ed ai loro cari.
    Solo che “Caronte” questa volta porta persone in carne ed ossa e non anime.
    Quel giorno, però, c’è qualcosa che non va.
    Rumori sinistri, rocce che si sgretolano e cadono davanti e dietro Franklin ed al suo accompagnatore.
    A poche centinaia di metri dal punto stabilito per il recupero dei colleghi c’è un’esplosione.
    Poi un crollo.
    La montagna intera sembra scoppiare dietro di loro … e sopra di loro.
    Enormi pezzi di roccia e terra cadono sul solito percorso di Franklin che prova ad accelerare mentre dietro di lui la strada si riempie di detriti.

    Riescono ad arrivare al punto stabilito; riescono a raggiungere i compagni.
    Ci sono 31 minatori che li attendono pronti a tornare in superficie dopo il loro turno di lavoro.
    Il frastuono provocato dal crollo, a pochi metri da loro, è però peggio di un pugno allo stomaco.
    C’è stato un crollo ed è di enormi proporzioni.
    Tutte le vie di uscita sono bloccate.
    Chi ha il coraggio di andare a vedere cosa è successo torna dai compagni con la disperazione negli occhi.
    Sembra che una roccia enorme ostruisca il passaggio.
    No, in realtà si scoprirà che è molto ma molto peggio.
    È crollato il tetto della miniera e tra loro e la salvezza ora c’è in mezzo una montagna.
    Quella è l’unica via di accesso … ma purtroppo anche l’unica via di fuga.
    Sono in 33 e sono bloccati a 700 metri sotto terra … nel buco del culo del mondo.

    La notizia inizia a filtrare piano piano.
    Non ci sono comunicazioni ufficiali da parte della compagnia titolare della miniera ma le famiglie, che non vedono tornare a casa i loro cari, fanno molto presto a capire che qualcosa di grave è accaduto.
    Si teme il peggio.
    Passano i giorni e le speranze diminuiscono ogni volta che il sole tramonta.
    Arriva la notizia che nel rifugio, dove si spera siano almeno una parte dei minatori, i viveri sono sufficienti per 48, forse 72 ore.
    Troppo pochi ovviamente.
    Passano 17 interminabili giorni quando finalmente arriva la notizia più bella e ormai quasi insperata: i 33 minatori sono vivi, tutti quanti e in buona salute.
    A raccontarlo, a coloro che sono fuori da quell’inferno, sarà un biglietto attaccato ad una sonda mandata fin laggiù nella speranza di stabilire un contatto.

    Franklin Lobos: nessuna resa, mai, da Zamorano ai 33 chiusi nella miniera


    Franklin Lobos è là con gli uomini di quel gruppo.
    Il più anziano ha 62 anni e fra meno di un mese lo attende la pensione mentre il più giovane di anni ne ha soli 19, ed in superficie lo attende la fidanzata con un figlio in grembo.
    Franklin Lobos riuscirà a formare una SQUADRA: la più coesa, determinata ed unita che mai si era vista in nessun campo di calcio di tutto il pianeta.
    In questo caso “Tutti per uno ed uno per tutti” non è solo un semplice motto.
    È la loro regola unica ed assoluta.
    Il loro “jefe”, il capo, laggiù è Luis Urzua.
    È stato allenatore di calcio. È lui il più anziano quello che, se risaliranno da quel buco maledetto, si godrà la pensione, i nipotini e il meritato riposo.
    È lui che si fa carico di organizzare la squadra.
    Per prima cosa il cibo sarà razionalizzato al massimo ed il tempo sarà il loro bene più prezioso.
    Resistere un giorno od anche un’ora o un minuto in più può essere fondamentale.
    Allungare il tempo vuol dire vivere.
    Due cucchiai di tonno, un quarto di bicchiere di latte e mezzo biscotto a testa è quello che hanno a disposizione ogni 48 ore.
    Sì proprio “ogni 48 ore” avete letto bene.

    L’acqua viene presa dai serbatoi dei tanti macchinari sepolti laggiù con loro. 
    Le luci di quei mezzi vengono accese di giorno e spente di notte: perché tutto deve sembrare il più normale possibile … l’unico modo forse, per non impazzire.
    Riescono a comunicare ogni giorno con la superficie, con i propri cari ed attraverso un passaggio, grande poco più di 15 cm, arrivano loro viveri e vestiti.
    Intanto, all’esterno, i trapani scavano e via via si fanno sempre più vicini.
    Il tempo passa ma la speranza di rivederli tutti vivi aumenta ogni giorno.
    Fuori, al sole del deserto di Atacama, si è creato un vero e proprio villaggio: è nato spontaneamente e lì ora vivono stabilmente i famigliari dei 33 minatori.
    Di giorni ne passano e ne passeranno ben 69 prima che l’ultimo minatore, il “Mister” Luis Urzua, venga estratto da quella maledetta trappola nella miniera di San Josè di Copiapò … in quel posto da sempre dimenticato da Dio e dal resto del Paese.
    Franklin Lobos è uno degli ultimi ad uscire.

    Potevano risalire solo uno alla volta e tra il primo e l’ultimo è passato più di un giorno.
    Al ritorno alla libertà, ad attendere Franklin Lobos, come per tutti gli altri, c’è la Sua famiglia; è li ad aspettarlo, come lo aspetta ogni volta che ritorna dal lavoro.
    In mezzo a loro, però, anche 3 volti insoliti, non di qualcuno che vive da quelle parti, dove si conoscono tutti.
    3 volti che il tempo ha riempito di rughe, regalato qualche chilo in più e lasciato tanti capelli in meno.
    Franklin Lobos però li ha riconosciuti subito: quelli sono i volti di Ramon Climent, Mario Caneo e Diego Solis.
    Si, c’erano tutti e tre ad attenderlo.
    “Perché non eravamo amici solo in un campo di calcio. Siamo amici per la vita”.


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    Per chi volesse saperne di più in Internet è facile trovare documentari e soprattutto il film completo “Los 33” girato e distribuito pochissimi anni fa … purtroppo non in Italia. 

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    (Remo Gandolfi è anche su www.storiemaledette.com)

    Le storie maledette di Remo Gandolfi ora sono anche in libreria. 

    Franklin Lobos: nessuna resa, mai, da Zamorano ai 33 chiusi nella miniera


     

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