Le persone sbagliate sulla buona strada
La Figc deve guidare una nuova fase, intestarsi questa responsabilità, vigilare sullaserietà dei “governati” (dalle leghe alle singole società), perseguire tenacemente questo programma abbozzato ma finalmente conclamato e probabilmente molto più condiviso di quanto si pensi.
La riforma dei campionati è “la madre di tutte le battaglie” dice dunque il presidente Carlo Tavecchio, il discorrere è sempre assai di recupero (frasi fatte, alla meglio), ma l’obiettivo è giusto. Abbiamo già scritto molte volte: il professionismo in Italia è abnorme, immotivato, gonfiato da un’equazione che si è dimostrata fallimentare (più squadre, più soldi: semmai solo tanti, tanti più debiti). Anche un onesto rapporto alla situazione economica generale e alla quantità e la disponibilità di solidi imprenditoriimpone la dieta: 18 squadre per la Serie A, 18 per la B, 20 per la Lega Pro. È l’obiettivo massimalista della Federazione che dovrebbe poter riuscire nell’impresa, giacché è sostenuta come “un sol uomo” proprio dai rappresentanti di quelle leghe da rifondare. Il totale farebbe sempre molto, 56 squadre professionistiche, più che in Germania, paese sicuramente più ricco in questo momento. Però è una riduzione “corposa”, impegnativa, etica. Negli ultimi 30 anni quasi 100 società hanno portato i libri in tribunale, per poi fallire: un dato impressionante. Ci sono regioni che in pratica hanno visto scomparire (e rinascere più in basso) tutte le squadre. Ricordo la mia – la Toscana, sicuramente un territorio affatto “depresso” – dove sono crollate tutte, una alla volta, anche le squadre maggiori, rappresentanti dei capoluoghi:Fiorentina, Livorno, Pisa, Arezzo, Grosseto, Pistoiese, Lucchese, Massese… Solo una disonesta riduzione del calcio a fenomeno plebeo può far sottovalutare la portata di un fallimento: è infine l’azzeramento di una storia, con danno culturale per una città, per una comunità che intorno al calcio si ritrova, perché il calcio in Italia (non solo e non è una vergogna) è tessuto connettivo, è tenuta sociale. Il calcio è importante e andrebbe curato bene. La dieta è vitale per un sistema che è già oltre il collasso: è moribondo e sopravvive spesso di trucchi a babbo morto.
Meno squadre, e società più robuste, tanto per cominciare. Irrobustite anche dalla riduzione delle rose. L’indomani della chiusura del calcio mercato ci ritrovammo sgomenti nel vedere le pagelle ai dirigenti: volavano i sette e gli otto, a star bassi. Eppure – fu la nostra tesi – di campioni acquistati nemmeno l’afrore, e non si può battere le mani a chi tiene a libro paga più di trenta giocatori, almeno dieci dei quali“matematicamente” inutili alla causa. Una spesa improduttiva che stonava un po’ nello spartito noioso cantato dai nostri presidenti: non ci sono soldi da investire. Da buttare, evidentemente sì. Ecco il limite: 25 giocatori. Due squadre intere più altri tre rinforzi. Semmai il serbatoio in caso di epidemia è il settore giovanile, che comunque diventa giocoforza protagonista: in queste rose devono esserci 4 giocatori che arrivano dal vivaio proprio e altrettanti da un altro vivaio nazionale. Nella riorganizzazione di squadre e campionati era doverosa una considerazione d’interesse generale. Quella che potevaessere un’idea virtuosa diventa un’imposizione forzosa: va bene lo stesso, purché sia. Per corrispondere al palese intento di rilanciare anche le rappresentative nazionali, il tutto andrebbe accompagnato dalla spinosa difesa di quote italiane, con qualche regolamento (le leggi forse finirebbero in contrasto con le norme europee) che – non potendo vietare la manodopera straniera – imponga almeno un limite “positivo” di giocatori di cittadinanza italiana. È inutile rammentare che i vivai sono molto frequentati dai giovanotti stranieri, e in questo non c’è niente di male o di ingiusto, così come non è reato pretendere una tutela dei ragazzi che poi dovranno assemblare le nostre rappresentative.
Queste due manovre (riduzione delle squadre e contrazione delle rose) dovrebbe riequilibrare i conti e la distribuzione delle risorse, anche se quest’ultimo auspicio non è affatto automatico. Qualsiasi cosa però assecondi l’intenzione, è da perorare.L’equilibrio dei campionati è “aggiunta” alla Serie A e al calcio italiano. Bisogna ricordare i tempi della brillantina Linetti e dei dischi in vinile, ma un ripasso di storia è struggente e utile. A luglio fu celebrato il 50esimo anniversario dello scudetto spareggiato, l’ultimo, l’unico: il Bologna sull’Inter. Di quella bellissima foto che scoloriva ai bordi, qualcosa restava. Anche allora c'erano i padroni, gli stessi cognomi di poi: Agnelli, Moratti. I club ricchi vincevano spesso, non sempre.Scrivendo per un quotidiano oggi distante dalle edicole (l’Unità), elencammo anche le altre squadre che si facevano posto, e le altre città che potevano fieramente arrivare allo scudetto con la programmazione – per restare a quell’esempio, Bernardini impostò un lavoro triennale sul Bologna - o con felici intuizioni di mercato, oprofittando del transito di proprietari più facoltosi e generosi. Prima i dati, poi qualche tentativo di capirli. Dopo i disordinati tornei del secondo dopoguerra, dal 1952 a oggi la Serie A si è proposta in tre versioni: a 16, 18, 20 squadre. Nei campionati a 16 o 18 squadre c'è stato più equilibrio e maggiore distribuzione degli scudetti. L’aumento delle squadre invece va a vantaggio di pochi: nel periodo considerato, i 10 tornei a 20 squadre (dal 2004 a oggi) hanno salutato tre scudettate: Inter, Juventus e Milan. E loro sole.
Nei due periodi a 18 squadre (fra il 1952-1967 e fra il 1988-2004) lo scudetto bazzicaaltre città: vincono 5 squadre diverse nei 15 tornei fra il 1952-67 (il Bologna, appunto, e prima la Fiorentina, e le solite tre). E diventano 7 nei campionati fra il 1988 e il 2004: Juve-Milan-Inter, ovviamente, più le due romane, il Napoli, la Sampdoria. L'equilibrio si sublima nei 21 campionati a 16 squadre, fra il 1967 e il 1988. Come ogni decisione anche quella di contrarre la Serie A avvenne per rimediare a un senso di colpa: il gol di Pak Doo Ik che ci eliminò dai mondiali inglesi chiedeva un cambiamento. La riduzione delle partite sembrava necessaria per destinare più tempo e più muscoli alla Nazionale. Lo snellimento della Serie A s'accompagnò alla chiusura delle frontiere fino al 1980. Ventuno campionati con 30 partite, allora, e 10 squadre che vanno a dama: sì, quelle tre, come sempre, perché sono più forti e hanno spesso maggiori possibilità di spesa, e posseggono quel “brevetto immateriale” che affascina i giocatori, e fa classifica, in questo sport. Juventus, Inter e Milan. E poi la Fiorentina, il Cagliari, la Lazio, il Torino, la Roma, il Verona, il Napoli. Tutte. Si vinceva a media inglese , due punti in casa, uno fuori: il pareggio valeva di più, è vero, ma dai polpastrelli sfugge un commento: bellissimo.
L'equilibro merita maggiore stima di quella riservata dai governanti del calciodell’ultimo periodo, che hanno preferito altri calcoli, quasi tutti sbagliati. L'equilibrio incontra una naturale sovrabbondanza di sogni (e per questo si trascina appresso un crescente potenziale di incubi: per chi comanda e preferisce mantenere lo status quo): ma proprio questi sono i sentimenti che affollano gli stadi, difatti penosamente vuoti.L’equilibrio è cardine fondamentale dello sviluppo delle società, che invece deperiscono quando le forze e le aspettative si divaricano. Non è mica l’incanto di tifosi repressi o sentimentalismo d’accatto: sono dottrine. In economia, dove pure può essere sinonimo di incertezza, nell'ultimo quarantennio è stato piazzato alla base di tutte le teorie di crescita e progresso. Lo studio dell'equilibrio ha aperto la via per capire quali processi economici non siano puramente competitivi, ma tendenti all'innovazione, al benessere diffuso, alla creazione di finanza sana. Il rimpallo con il calcio non è bizzarro: i campionati equilibrati hanno prodotto competitività e salubrità al sistema, deperito invece nei tempi oligarchici.
Che i “campioni” di questa rivoluzione, in verità così a portata di mano, siano Tavecchio e Lotito è solo una sconfitta per chi poteva farlo prima e con maggiori margini. Adesso non è programmazione: è necessità. L’imbarazzo che spesso suscitano questi protagonisti pesa sui commenti ma uscirà dal bilancio l’indomani della realizzazione di questi annunci. Nello stilare il programma ideale, dopo le dimissioni-fuga dei vertici federali, rimpolpavamo queste prospettive con altri due provvedimenti, appuntati anche nell’ultimo pezzo: l’accessibilità dei tifosi al capitale azionario delle società e l’obbligo dello stadio di proprietà entro un ragionevole numero di anni dall’approvazione della mitica legge sugli stadi: dopo una sgrossatura fin troppo idealista, comunque lascia la possibilità di agevolazioni per gli uomini di buona volontà e discrete risorse.
Due precetti che innesterebbero ulteriori virtuosismi. La proprietà “diffusa” favorisceil controllo sui bilanci, un limpido impiego dei ricavi e un’espansione logica del marchio nella “massa”, a partire dagli appassionati-azionisti (così è stato per tutti i maggiori marchi calcistici del mondo), con effetti su quel merchandising così debole nei bilanci delle squadre italiane. Gli stadi nuovi, comodi, magari pieni sono – sarebbero – un investimento economico e culturale con tante ripercussioni, durature nel tempo. Cose da fare ce ne sono, da qualche parte si può cominciare, coraggio.