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ESCLUSIVO Zoff, prima intervista dopo la paura: 'A Bearzot ho detto: ancora no'
Improvvisamente, per un attimo, tutto diventò una cartolina. Passanti, ciclisti, automobili, venditori e clienti alle bancarelle del mercato, bambini che andavano a scuola, cani randagi, passeri sui rami. Persino le nuvole nel cielo sopra il quartiere Fleming pregarono il vento di darsi una calmata perché potessero interrompere la loro corsa celeste. Non è dato sapere come e per quale strada alla gente, come un fulmine, fosse arrivata la notizia secondo la quale il più illustre e amato abitante di quella fetta di Roma si trovava ricoverato da giorni in ospedale. Nel corso degli anni, arrivato da Torino, era diventato l’amico di tutti. Un'icona popolare. Non solo per le imprese talvolta miracolistiche che era riuscito a realizzare. Soprattutto per aver dimostrato di essere, pur nella sua grandezza di mito sportivo, un uomo come tutti gli altri. Ora stava male. Di più. Stava malissimo tanto che le sue condizioni di salute avevano costretto i medici a lettarlo in terapia intensiva. Da Roma partì l’allarme che si fece sentire in tutto il mondo. Dino Zoff era in pericolo di vita.
QUARANTA GIORNI DOPO.Allora vecchio leone?
“Scusa chi sei?”
Marco. Dài, non bastano quarantatrè anni per riconoscere la voce?
“Massì, scusa Tardelli, è che il telefono fa rumori strani. Dimmi dunque…”
Tardelli un corno, mi prendi per i fondelli, vecio friulan? Ti passerà mai la volglia di scherzare. E dire che chi non ti conosce pensa tu sia un inguaribile musone.
“Valà, abbi pazienza. Mi sto riprendendo soltanto adesso, con molta calma, e una risata può fare soltanto bene. Il fatto è che, per la prima volta nella mia vita ho avuto paura. Più ancora di quando ero bambino e sulla nostra testa, a Mariano del Friuli, piovevano le bombe americane o tedesche. A due anni non realizzi con precisione ciò che sta accadendo. A settantadue sì. Senti bene, però. Quando dico paura non parlo per me stesso, ma per quelli che mi stanno intorno. Anna, Marco, sua moglie, i miei nipotini. Noi che ci siamo voluti e che ci vogliamo un mare di bene. La mia tribù. Le avrei fatto un torto enorme andandomene. Mi sono ribellato, mentalmente, a quello che poteva essere un destino infame. Sai, il cervello e la volontà insieme sono capaci di grandi miracoli. Il resto lo hanno fatto i medici individuando quel vìrus maledetto che mi stava paralizzando prima di arrivare al cuore. E il cuore non avrebbe retto. E’ passata, per fortuna, ed è stata la più grande parata di tutta la mia vita”.
Sei stato sempre cosciente e presente a te stesso?
“Assolutamente sì. E anche quando una notte, sveglio lì nel letto in penombra e da solo, mi è parso di intravedere due figure al fondo della camera. La prima aveva il volto di Gaetano, l’altra quella del Vecio. Entrambe sorridevano. Mica dormivo. Non stavo sognando. Ho detto loro “non ancora, non adesso”. E sono sempre qui”.
Tra la gente che ti ammira e ti vuole bene.
“Ma è soprattutto la loro stima che mi riempie il cuore di orgoglio. La stima per ciò che sono riuscito a fare in porta con queste e, poi dopo, per essere rimasto identico al mio originale come uomo coerente e mai in vendita. Dritto per la mia strada senza fare proclami o chiasso. Mi hanno capito. Nel palazzo del calcio,invece, non mi hanno voluto. Hanno preferito soggetti politici che alla fine si sono beccati otto anni di squalifica, mi pare. A me quel mondo fatto così non manca. Sai, invece, di che cosa sento un feroce bisogno? Della mia mazza da golf e delle lunghe camminate sul green. Ma, mi sa tanto che per arrivare a questo dovrò attendere un bel po’ tra medicine assortite e riabilitazione”.
E ADESSO NON CI RESTA CHE RIDERE
Improvvisamente tutto è tornato a essere come prima, nel quartiere Fleming, a Roma. Un film, alla moviola, persino accelerato e quindi divertente in omaggio all’amico rientrato alla base un poco acciaccato ma vivo e vegeto. Il compagno ideale e per sempre al fianco di Anna. Il padre troppo ingombrante a livello professionale per poter augurare, una volta, a Marco una carriera nel calcio. E’ un ottimo ingegnere. Il suocero da adorare e da coccolare e alla fine convincere a scrivere la sua biografia della quale l’editore sta curando l’uscita della quarta edizione. I nipotini ai quali quel libro è dedicato perché possano sapere chi è stato il loro nonno. Infine, se mi è consentito, un poco anche a me stesso dopo quarantatrè anni di altalenanti frequentazioni con Dino. Lui che, oltre all’amicizia, mi fece un gran regalo mettendomi nelle condizioni professionali per realizzare quello che si chiama scoop. Era una domenica sera. Nel pomeriggio la Juventus aveva vinto il suo ennesimo scudetto malgrado il pareggio casalingo con lì Avellino. Una partita rocambolesca, a dir poco. Tre a zero per i bianconeri alla fine del primo tempo. Tre pari nella ripresa. Zoff non era rientrato in campo. Al suo posto venne immolato il povero Alessandrelli. Alle nove di sera, in redazione, ricevo una telefonata. E’ Dino. Mi fa “Senti, è una scelta definitiva. Da adesso smetto con il calcio giocato. La notizia la do soltanto a te, per il momento. Fanne buon uso. Perché lo faccio? Forse perché in tutti questi anni ci siamo divertiti e soprattutto rispettati. Buon lavoro”. Il giorno dopo, con il titolo a nove colonne dedicato a Zoff che lasciava il calcio, “Tuttosport” vendette un numero di copie da record. I colleghi della concorrenza erano ovviamente furibondi ma, come accadeva in casi del genere, non osarono protestare con Zoff. Uno come lui aveva il diritto di fare ciò che meglio credeva.
Marco Bernardini