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Dalla B di business alla M di meritocrazia: il dizionario della 'guerra dei ricchi' del pallone che non avrà fine
MERITOCRAZIA - La formula, hanno detto i critici, non era meritocratica: troppe squadre avevano diritto a partecipare al torneo senza qualificazione. E’ una critica condivisibile a patto d’intenderci su cosa sia meritocratico. Senz’altro l’ultima classifica dei rispettivi campionati europei è più meritocratica della tradizione e del blasone, perché si fonda sul risultato. Ma il discorso cambia un po’ se consideriamo i risultati storicamente raggiunti. Per esempio, è più meritocratico il Benevento o il Milan dal punto di vista dei risultati nel tempo? E l’attuale meritocrazia , alimentata, mantenuta, non diventa un’oligarchia, con tutto quello che ne consegue? Ovvero più poteri, traguardi più “elevati”, maggiori bacini di utenza, più aspettative da soddisfare ergo maggiori oneri. È quel che, sinteticamente, ha detto Conte circa due settimane fa in un dopo partita a Sky. Per lui le “grandi squadre che investono di più, devono ottenere di più”. Ma in questo modo - si dice - i “piccoli” club avranno sempre più difficoltà a diventare grandi. Siccome l’attuale assetto calcistico europeo, quello di Ceferin, determina che, in una ventina d’anni circa, vincano sempre o quasi le stesse squadre (ah! Ma il Leicester! Ah! L’Atalanta) va tutto bene e quindi bisogna difendere questa meritocrazia che fa poca rima con democrazia. Ma da quando in qua la meritocrazia è democratica o la democrazia è meritocratica? A un certo punto, le parti configgono. Ovunque, non solo nel calcio.
BUSINESS - Ormai si dice da decenni, gran parte dello sport, il calcio in particolare, è business. Non c’è bisogno di ripetere la sfilza dell’indotto che supera di gran lunga gli incassi del botteghino, la globalizzazione che allarga la platea, il ruolo acclarato del tifoso consumatore. Eppure, nella mentalità europea, (anche in quella sudamericana) il calcio non è completamente assimilabile all’economia. Il tifoso segue i bilanci, l’organizzazione, la commercializzazione, le sponsorizzazioni, ma alla fine resta appassionato non ai numeri, bensì ai sogni, al proprio vissuto fatto di speranze, gioie, frustrazioni: una squadra, per lui, non sarà mai fino in fondo un’azienda. Però una squadra professionistica non può non esserlo. Di questa dissonanza cognitiva sono esempio quegli allenatori e quei calciatori milionari, che, reagendo scandalizzati alla Superlega, hanno detto una balla, peraltro contenente in parte una verità: “Il calcio è dei tifosi” cioè delle persone e non dei padroni (siano essi emiri, fondi d’investimento, vecchie famiglie, imprenditori…) come se fossero i tifosi a pagar loro lo stipendio. Già, ma il sistema messo in piedi a partire proprio dalla clausola Bosman, dalla difesa del calciatore lavoratore, non si basa proprio su un gioco al rilancio, col lavoro “sporco” lasciato al procuratore, il quale ha tutto l’interesse ad aumentare l’ingaggio (leggi aumento delle spese societarie) per sé e per il suo assistito? La difesa del lavoratore, quindi, confligge col sentimento popolare? Infatti, avete, per caso sentito Guardiola, Klopp, i calciatori del Leeds ecc. ritenere necessaria la rinuncia alla figura del procuratore, chiedere una diminuzione dei loro stipendi? Questa del calcio dei tifosi, insomma, è una feconda contraddizione: lo stesso “prodotto” perderebbe fascino e valore senza legame con le comunità del tifo, ma il fattore identitario, di per sé, non è sufficiente a mantenere, oggi, una squadra ad elevati livelli. I sentimenti non bastano. Provate a chiedere a un tifoso: preferisci che la tua squadra retroceda, una, due, tre volte oppure vuoi che chieda prestiti, si leghi anima e corpo alle banche, cerchi soci, compri giocatori, aumenti gli incassi dagli sponsor, vada avanti e riesca a vincere? Lo deve comprare o no quel giocatore che potrebbe risultare determinante per coppe e campionati? Ci pensate ai tifosi dell’Inter che dicono : “Lukaku non lo vogliamo! Costa troppo!” oppure “Vendiamolo così rientriamo dai debiti!”
USA-EUROPA - Sempre a proposito della Superlega, s’è fatto un gran parlare di NBA, di modello nuovo e modello vecchio, di coraggio imprenditoriale e di provincialismo. E si è fatta un po’ di confusione. Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. In realtà s’è giocata una partita tra due varietà di capitalismo. Da un lato la versione statunitense, sviluppatasi su uno stretto rapporto tra agonismo giovanile di massa inserito nel sistema scolastico (siamo alla fase teoricamente dilettantistica) e massimizzazione economica, che spettacolarizza e commercializza al massimo lo sport. Qui, emozione e denaro vanno di pari passo fin dalla nascita. La NBA nacque nel 1949 come sviluppo di quanto iniziato nel 1946: allargare le arene di hockey su ghiaccio con un “spazietto” riservato a quel nuovo gioco che si chiamava Basket, per poter incassare di più. Il calcio, invece, non si sviluppò per creare profitti, anzi veniva celebrato per la sua natura antieconomica e anche il passaggio al professionismo non innescò prepotenti logiche di sfruttamento commerciale. Forse per questo 600 mila tifosi americani dell’NBA vanno a generare un incasso annuale generale stimato, a cominciare dal prossimo anno, in circa 8 miliardi di dollari e il calcio europeo con più del doppio degli spettatori si ferma a 2 milioni (fonte Il Sole 24 ore). La NFL, il football americano, con un terzo degli spettatori, dal 2022, invece, incasserà 10 miliardi di dollari l’anno. Il tifoso di calcio si abbona allo stadio, alla TV (ora quanti abbonamenti farà in Italia?), compra gadget, spende per le trasferte, parla di fatturati, mette pollici verdi o rossi sui bilanci, insomma agisce in modo economico, ma non si sente solo un consumatore: alimenta una realtà che detesta. Ecco perché si rivolta contro Glazer o il calcio dei super ricchi e comincia a chiedere l’azionariato popolare.
AZIONARIATO POPOLARE - Ultimamente anche l’economista Carlo Cotarelli, di solito così sensibile alle ragioni neoliberistiche della produttività e della libertà d’impresa, lo invoca per la sua Inter. In Germania, quasi tutte le società calcistiche attuano questa formula (50%+1 di azionariato diffuso che concede la maggioranza ai tifosi ), il che non permette che il Bayern perda un campionato e il St. Pauli lo vinca. In Spagna, Barcellona e Real Madrid contano migliaia di soci, si riuniscono in assemblea ed eleggono i rispettivi Presidenti e in Italia, un punto della Legge Delega della Riforma dello Sport cita l’esigenza di sviluppare l’azionariato popolare. Parlarne in dettaglio sarebbe troppo lungo. Ma resta una domanda: Real Madrid e Barcellona, società fondate proprio su questo sistema, non navigano forse nei debiti? La partecipazione popolare affranca dalle “leggi” dell’ economia, permette di gestire meglio e volare in alto, fuori dall’ odioso ricatto dei ricavi e dalle spese?