Dalai: la coperta corta del Mancio
La coperta è corta, la coperta costa.
Non serve ripercorrere per la millesima volta la storia prima scellerata e poi mestissima dell’Inter post triplete.
Fermiamoci all’oggi, a questa stagione che si voleva in crescendo e che rischia di finire nello sconforto più totale, in un limbo senza obiettivi.
Trascinarsi, il peggiore dei verbi applicati al calcio.
Dicevamo che la coperta è corta, lo è eccome.
Se per un momento si riuscisse a guardare con lucidità alla parabola dell’Inter 2014/15, se lasciassimo da parte gli hashtag ostili e gli insostenibili (alla luce dei risultati di questi quattro mesi), integralismi anti-mazzzariani, ne verrebbe fuori un quadro abbastanza stabile e fondato su una sola colossale certezza: l’Inter è mediocre.
Lo è la rosa, lo sono i dirigenti che l’hanno costruita e in questi dieci mesi lo sono stati purtroppo anche gli allenatori, che hanno cercato rimedi opposti ma altrettanto inefficaci alla pochezza del folle gruppo assemblato da Ausilio, al quale va concessa l’attenuante di aver agito da ministro senza portafoglio.
Per citare un filosofo contemporaneo, non ci si siede a un ristorante da 100 euro con in tasca una banconota da 10.
Ma stiamo ai fatti, per quel che di tattica si capisce da queste parti.
Mazzarri era consapevole della fragilità della sua linea difensiva e dopo averla puntellata l’anno scorso con un buon mestierante come Rolando, quest’anno si è ritrovato a doverla tirare (la coperta) tutta all’indietro.
Ricordate il disco rotto della punta unica?
Un 3-5-2 camuffato, densità a centrocampo, fasce a scorrimento alternato e fortissima concentrazione sul possesso e sulla rotazione nella propria metà campo. Un gioco noioso ma a conti fatti obbligato, la delega in bianco allo spunto degli attaccanti o del trequartista immaginario (quello che tra Kovacic, Hernanes e Guarin non è mai sbucato dal mazzo).
Mancini ha deciso di tirarla in avanti (sempre la nostra coperta), lasciando in balia delle proprie nevrosi la nuova linea a quattro della difesa, protetta solo da un inesauribile ma limitato Medel. Il risultato è la catastrofe che ha estromesso l’Inter dalla corsa per qualsiasi obiettivo e trasformato il panico della difesa in un malessere collettivo, con giocatori in continua involuzione e un divario drammatico tra i movimenti ritrovati dell’attacco e l’errore sistematico dei centrali.
Finché Guarin ha cantato e portato la croce (ma non poteva durare in eterno), qualcosa di buono è successo, finché Brozovic (eccellente centrocampista, in prospettiva), non ha accusato il trauma dell’ambientamento, qualcosa ha funzionato.
Poi l’Inter si è spenta, la coperta si è ulteriormente accorciata e la squadra si è ritrovata prigioniera della sua terribile mediocrità, di una corsa quasi amatoriale e di un mercato di riparazione che ha riparato poco.
Squagliato al sole Podolski, intermittente e un po’ barocco Shaqiri, rimangono le buone intuizioni di Brozovic e Santon e poco altro.
Che fare?
Ripartire, una volta ancora.
Con qualche consapevolezza in più: non ci sono campioni incedibili, c’è una difesa da ricostruire e un allenatore eccellente che deve ritrovare fiducia.
In fretta, prima che piovano altri hashtag stupidi.
Michele Dalai