Da Wenger, all'addio ad Highbury: che fine ha fatto il grande Arsenal?
Da più di un secolo ormai, nominare l’Arsenal F.C. significa fare ossequioso riferimento alla classe nobiliare del football d’Oltremanica e non solo. Infatti, dagli albori del XX secolo i Gunners hanno saputo costruire un blasone unico, corroborato dal rapporto con lo storico stadio di Highbury, in cui hanno potuto celebrare innumerevoli successi. Eppure dal luglio 2006, in concomitanza con il trasferimento nel moderno Emirates Stadium, il club ha intrapreso un lento cammino discendente nella scala sociale del calcio britannico. Che fine abbia fatto l’Arsenal nell’ultimo decennio è quello che ormai si domandano i calciofili di mezzo mondo e noi, ripercorrendo la sua ultracentenaria esistenza, cerchiamo una risposta.
È il 1886 quando il club viene alla luce su passionale iniziativa degli operai dell’officina Dial Square, facente parte dell’Arsenale Reale dislocato nel distretto di Woolwich, nella zona sud-orientale del circondario di Londra. Se il nome ufficiale deriva dall’omonima armeria, così come simbolo e soprannome, le divise rosse giungono in dote con il portiere Fred Beardsley dal Nottingham Forest. Le prime esperienze sportive si limitano ai tornei cittadini e alla F.A. Cup, finché il Woolwich Arsenal viene ammesso alla Second Division nel 1893, divenendo la prima squadra del sud iscritta alla Football League. Finalmente nel 1904/05 è il momento dell’esordio in First Division, dove però per un decennio si accumulano modesti risultati e si svuotano le casse del club, non sufficientemente rimpinguate dagli esigui incassi delle partite disputate a Invicta e Manor Ground.
Quando nel 1910 una cordata capeggiata da Sir Henry Norris, già dirigente del Fulham F.C., entra nella società, il club è in liquidazione. L’imprenditore prova a scongiurare la bancarotta mediante una fusione con i Cottagersma, di fronte al diniego della federazione, opta infine per un trasferimento della squadra e la costruzione di uno stadio più capiente e confortevole. Così si sceglie il quartiere di Highbury nel distretto di Islington, popolosa area del nord di Londra, strategicamente vicina alla stazione della “Tube” di Gillespie Road. Qui gli ottimi rapporti tra il presidente ed i vertici della Chiesa Anglicana permettono di sfruttare il terreno del St John’s College of Divinity, dove sorgerà il The Arsenal Stadium, o più semplicemente Highbury, nell’estate 1913.
Il progetto è firmato da Archibald Leitch, la mente che ha concepito la maggior parte dei meravigliosi impianti realizzati all’epoca, come Anfield, Goodison Park e Old Trafford. L’imponente facciata, impreziosita da uno stile ammiccante al decò, esalta l’immaginazione degli appassionati, che ben presto parlano di “Home of football”. Certamente il trasferimento rescinde qualsiasi legame con la natia Woolwich ed i primi sostenitori – come testimonia anche l’eliminazione di tale dicitura dal nome ufficiale del club – ma in questo modo l’Arsenal forgia la sua nuova futura identità, incentrata sul fascino dello stadio di Avenell Road, costellata di grandi vittorie e successi memorabili.
Infatti, a differenza della migrazione verso l’Emirates, l’approdo ad Highbury si rivela decisivo per la crescita del club. Tutto inizia con l’avvento del visionario Herbert Chapman che proietta la squadra verso i trionfi degli anni 30, quando i Gunners monopolizzano la scena inglese. L’ex allenatore dell’Huddersfield Town, oltre ad innovare l’intero gioco grazie alle nuove tecniche di preparazione atletica ed ai principi del “Sistema”, contribuisce anche a radicare l’Arsenal nel territorio del nord di Londra, facendo ribattezzare Arsenal tube station la fermata della metropolitana attigua ad Highbury.
Quando una polmonite lo porta via nel gennaio 34, Chapman ha già inaugurato la bacheca dei Gunners – adesso in maglia rossa con maniche bianche abbinata a calzoncini bianchi – con due titoli, una F.A. Cup e due Charity Shield. La sua eredità viene raccolta con successo da Joe Shaw e George Allison, che rendono l’Arsenal la squadra da battere in Inghilterra fino alla Seconda Guerra Mondiale. Per intenderci, quando nel novembre 34 gli Azzurri iridati affrontano la Nazionale dei tre leoni nella celebre Battaglia di Higbury, tra i padroni di casa scendono in campo ben sette ragazzi dei Gunners. Nel frattempo i trionfi, ricercati tramite il gioco offensivo e divertente tramandato da Chapman, accrescono la fama del club ed ovviamente la sua base di tifosi, che si dimostrano pronti a occupare ogni pertugio del Salotto del football.
Così si rende necessario un ammodernamento ed ampliamento delle gradinate disegnate da Leitch, che prevede la copertura del Clock End e del North Bank. Proprio quest’ultima gradinata subisce un’ulteriore restauro nel Dopoguerra, in seguito ai danni arrecati dai bombardieri della Luftwaffe, sulle cui mappe strategiche Highbury era cerchiato in rosso, in quanto presidio difensivo “Air Raid Precautions”. Che poi, durante i lavori, l’Arsenal è costretto ad accettare l’ospitalità dei nemici-dirimpettai del Tottenham, pronti a ricambiare il piacere e memori di ciò che era successo in occasione del primo conflitto bellico; all’epoca infatti White Hart Lane era stato adibito a fabbrica di armamenti e gli Spurs avevano disputato le gare casalinghe nella tana dei rivali.
Una volta superati gli orrori della guerra e ripresi i campionati, dal 47 al 54 arrivano altri due titoli, due Charity Shield ed una F.A. Cup, quindi si apre un’epoca di anonimato, testimoniata dalla presenza del solo George Easthamtra gli inglesi che alzeranno al cielo di Wembley la Coppa Rimet del 66’. Successivamente, mentre una generazione si gode lo sbocciare della Swinging London, l’ex calciatore Bertie Mee viene promosso da fisioterapista ad allenatore e, alla faccia dei celebri allibratori d’Albione, guida l’Arsenal alla conquista della Coppa delle Fiere del 70. La prima affermazione continentale, esito di un’esaltante rimonta nel doppio confronto con l’Anderlecht, fa da prologo al clamoroso Double della stagione seguente.
La doppietta sembra inaugurare un altro ciclo di fasti, tuttavia per quasi vent’anni i Gunners sono esclusi dalla lotta per il titolo e racimolano soltanto un paio di coppe nazionali. Tra i 70 e gli 80, mentre i gruppi The Gooners (da “Gunners”) e The Herd (“Il Branco” n.d.a) movimentano i sabati pomeriggio dei “Bobbies” della Metropolitan Police, tra gli avversari va di gran moda lo sfottò del “Boring, boring Arsenal!” ed il sostegno alla squadra diventa una sofferta prova di fede.
Per spezzare la maledizione, sulla panchina deve sedersi proprio uno dei protagonisti dell’ultimo titolo, ovvero George Graham, già residente nel centrocampo di Highbury dal 66 al 72. Rigida disciplina e gioco verticale, quasi una palla lunga e pedalare dalla difesa agli avanti, sono le basi su cui rilanciare il club. Così, dopo l’immediata conquista della Coppa di Lega, il finale della stagione 88/89 è destinato ad essere tramandato alle generazioni di tifosi che verranno, anche grazie al meraviglioso romanzo Febbre a 90o di Nick Hornby. All’ultima giornata, l’Arsenal, trascinato dall’inesauribile vena realizzativa di Alan Martin Smith, prova il controsorpasso sul Liverpool capolista, proprio in casa dei Reds. Sembra l’ennesima annata stregata, finchè Thomas non segna lo 0-2, decisivo per ribaltare la differenza reti, compiendo il miracolo sul prato di un Anfield attonito.
Infine, al tramontare del settembre 96, ecco atterrare a Londra l’uomo che legherà indissolubilmente la sua vita all’Arsenal, divenendo assoluto protagonista della sua storia fino ai nostri giorni: Arsene Wenger, Nomen omen. Il suo impatto sul club è dirompente e porta immediatamente abbondanti frutti. Dall’edificazione del centro tecnico di Colney fino alle innovative metodologie di allenamento, passando per la meticolosa attività di scouting nei campionati esteri, egli dedica anima e corpo alla costruzione dell’Arsenal del secondo millennio, divenendo un punto di riferimento per l’intero movimento inglese. In campo i Gunners giocano un calcio tecnico e propositivo, rapido e spumeggiante, emblema distintivo da esportare in tutto il globo.
La generazione del capitano Tony Adams, gli Invincibili di Vieira, Bergkamp e Titì Henry, seguiti poi dalla fioritura di nuove gemme come Fabregas e van Persie sono solo alcuni degli esempi in grado di esprimere il talento ammirato ad Highbury, a cavallo tra il XX e XXI secolo. Unicamente il Barcellona, l’unica squadra in grado di eguagliarne la qualità della manovra, nega all’Arsenal l’assoluta consacrazione europea nella finale di Saint Denis, nel maggio 2006. Tutto questo fino a che, trascorso qualche mese, in seguito all’abbandono di Highbury qualcosa viene a mancare negli intenti della dirigenza, nella visione dell’allenatore e nel cuore dei giocatori.
Quando nel luglio 2006 viene inaugurato Ashburton Grove, o meglio Emirates Stadium, la società spera di incrementare esponenzialmente il fatturato, per non perdere terreno dall’onnipotente Manchester United e dai nuovi ricchi del Chelsea (all’epoca i petrodollari non avevano ancora conquistato la metà blu di Manchester). La cessione dei diritti nominativi dell’impianto, l’aumento dei ricavi derivanti dal botteghino e dai servizi offerti nei giorni delle partite, le ricche sponsorizzazioni, oltre ai diritti televisivi, sono gli strumenti per espandere i ricavi, cavalcando l’onda della visibilità globale garantita dal circo della Premier League. Inoltre l’asso nella manica dovrebbe essere la vendita degli appartamenti del complesso residenziale costruito sui resti di Highbury, di cui si salva solo la facciata del Clock End. Peccato che nel 2007 la crisi finanziaria, scaturita dal fallimento della banca Lehman Brothers, trascini il mondo verso la recessione, lasciando al club un debito di 260 millioni di euro e decine di proprietà sfitte.
Nel frattempo Wenger, laureato in Economia, è costretto ad attuare l’aziendalistico piano del “fare le nozze con i fichi secchi”. Durante le prime stagioni del post-Highbury il gioco identitario, fondato sulla combinazione tra atletismo e tecnica, consente di lanciare ottimi calciatori in prima squadra, ma la mancanza di esperienza e di carisma allontana i Gunners dai piani alti della classifica. Tuttavia, nel lungo periodo l’abilità dell’allenatore francese di allevare giovani promesse si rivela un limite, divenendo un mero strumento per la sopravvivenza della società. Oggi Arsene appare solo e confuso, e la sua visione calcistica in parte offuscata.
Secondo le stime più recenti, oggigiorno la società ha superato le difficoltà finanziarie e raggiunto la stabilità, grazie all’abbattimento del debito e la qualità dei suoi assets. Nonostante ciò, la floridità sembra aver convinto la dirigenza, guidata dal duopolio Kroenke-Usmanov, a trascurare l’aspetto prettamente sportivo: di fronte alla ghiotta prospettiva di spartirsi i lauti dividendi della gestione economica, l’importanza dei risultati del campo è passata in secondo piano. Intanto sul rettangolo verde, i ragazzi sembrano non sentire più il peso della gloriosa maglia che indossano né percepire il sostegno di un pubblico che si sta rassegnando. Sempre più sconsolato e flebile si leva il canto: "And it’s Arsenal, Arsenal FC. We’re by far the greatest team, The world has ever seen!”
Nel vecchio impianto, il fiato sul collo degli avversari soffiava potente da tutti i lati della pianta quadrangolare mentre ora, alle orecchie di chi sta in campo, giunge a malapena l’eco dei cori. L’Emirates Stadium con i suoi sessanta mila posti è decisamente più moderno e remunerativo del vecchioSalotto del football, ma non può competere con la magia ed i sentimenti, “assets intangibili” che trapelavano dalle sue gradinate. Ad Highbury non si passava tanto facilmente ed il club farebbe bene a ricordarselo, per poter costruirsi un futuro.
Che fine abbia fatto l’Arsenal se lo chiedono in molti: per trovare una risposta gli consigliamo un giro dalle parti di Avenell Road.
Tratto da www.rivistacontrasti.it