Da Testaccio all'Olimpico, 89 anni di tifo e la Roma si trasforma in 'Magica'
Il romanismo di quei ragazzi, fede laica nella Roma papalina, era nato esattamente ventotto anni prima in un pomeriggio d’estate del 1927 da un’idea piena di cuore e dalle molte speranze. Era l’idea dell’utopismo rivoluzionario e popolare che desiderava contrapporsi alle forze del nord, per strappargli la vittoria. La stessa idea di oggi. Lo stesso sogno.
Un sogno coltivato nei luoghi della genesi. Il Motovelodromo Appio, primo stadio in cui andò in scena il connubio indivisibile tra i tifosi e la squadra. In 10.000 seguirono l’esordio, erano i sostenitori della prima ora quelli delle borgate e dei rioni dentro le mura, fortudiani seguaci del grande Attilio Ferraris IV, il leone di Highbury. I tifosi della Fortitudo, una delle quattro squadre a costituire la Roma in un sincretismo greco nella città universale, furono i primi a dare un’anima di lotta alla squadra.
Poi venne Testaccio. Il santuario della passione, lo stadio all’inglese, il catino dove nessuna squadra passerà, come recitava la canzone, inno di battaglia e tratto dell’anima. Il romanismo moderno della filosofia del cuore oltre l’ostacolo nacque lì. E lì, dove oggi ci sono il mattatoio, il teatro tenda e le discoteche ancora vive e si propaga per la città celebrando un rito pagano, quello del magico rapporto tra tifosi e squadra.
Quei tifosi che nel momento delle difficoltà l’hanno sempre aiutata, simbolo della vicinanza e del corpo unico tra mente e cuore. Nel 1951 con la squadra appena retrocessa organizzarono, guidati dall’anima guerriera del circolo “Attilio Ferraris” 80 gruppi e circoli da 24.000 affiliati con i quali raccolsero denari freschi per finanziare la campagna di mercato, sorprendendo il mondo della serie A e i giornali dell’epoca. Un azionariato popolare imperfetto, che celebrò subito il ritorno nel calcio dei grandi sogni. La colletta del Sistina del 1965 fu il momento più triste della fede ma rimarcò il tratto altruista del romanismo degli anni della dolce vita, il tifo che con l’ingenuità dei coraggiosi cede qualcosa di se per passione estrema verso una squadra in crisi miliardaria.
Gli anni ’60, magici e cinematografici hanno raccontato la pellicola della memoria e dell’unico grande amore. Il romanismo ricorda precisamente tutte le formazioni, tutti i giocatori ed è un pensiero universale sulla squadra che il grande mattatore Gassman, in questura a Milano, declinò magnificamente per coprire i “soliti ignoti” monicelliani. In questo perenne ricordo di se stesso, in queste sovrapposizioni di personaggi e partite, il romanismo rivive la sua storia e fa dei suoi tratti, un rito. Quello degli anni ’60 si celebrava con le fiaccolate per festeggiare le vittorie impossibili, con i cori di una curva guidata da un personaggio fiabesco come Dante e con i pretoriani di Manfredini, capisaldi di un tifo utopico e sognante legato ai giocatori simbolo.
Già i giocatori. Le figure di una filosofia, anche dura delle volte, ingenua in altre ma innamorata dei personaggi anarchici, dei giocatori della memoria. Il mitico Pedro Manfredini, rinverdì la magia del tifo anarchico e scoprì che quando giocava c’erano 10.000 tifosi in più allo stadio rispetto a quando era fuori squadra. I suoi pretoriani, appunto.
Gli stessi di Pierino Prati la peste nel 1975. Gli stessi che assieme a tutti gli altri celebravano i Ferraris e i Bernardini, i Di Bartolomei e i De Sisti, i Giannini, i Totti, tutti capitani, tutti romani, tutti come quei ragazzi di strada che calciando un pallone, stavolta in serie A, hanno raccontato i tanti tratti del romanismo: dal razionale, al geometrico, dal lungimirante al coraggioso, dal talentuoso al sentimentale.
Gli ultimi quarant’anni il tifo per la Roma ha vissuto quattro fasi storiche. Quella dell’istituto negli anni ‘70 di una fede, con la nascita dei Roma club e della loro associazione su idee herreriane e anzolinane. E quelle più passionali delle trasferte aeree del Personal jet di Josa e della Curva Sud espressione per vent’anni di un tifo inglese e brasiliano.
Gli anni ’80 invece sono stati l’illuminismo del romanismo capace di comunicare il suo amore immortale per la squadra del cuore, con il neologismo di “Magica”, con le coreografie e gli striscioni delle notti di coppe europee, pasquinate del tifo, o con le canzoni. Una squadra si vede da come canta diceva una vecchia leggenda degli spogliatoi. Il canto di Grazie Roma nel concerto al Circo Massimo del 1984 a esorcizzare il dolore per la sconfitta un minuto dopo Roma-Liverpool spiega la leggenda, e da anima pagana al romanismo dei tempi di Liedholm e Viola.
Gli ultimi anni sono stati sbilenchi perché hanno introdotto qualcosa d’inatteso e fastidioso come le correnti nel tifo, una sorpresa che oggi ha aperto polemiche e contrapposizioni. Un cambio generazionale che ha messo in discussione il vecchio principio dell’unità del romanismo, tanto difeso come facevano i re medievali per l’unità religiosa cristiana. L’idea di rimonta di Roma-Slavia Praga, i Derby, in un affresco a parte, l’incredibile finale di Roma-Fiorentina del ‘99 col pubblico in catarsi piena e le 60.000 bandiere allo stadio nel giorno dello scudetto di Capello e Sensi sono le ultime grandi memorabilia del romanismo, quelle iconiche e romantiche.
Quelle che il romanismo ha dentro di se e che è chiamato a ritirare fuori dall’alveo del fiume delle sue emozioni sopite. Le emozioni di quei ragazzi che inseguendo un pallone a Roma, sognavano e sognano magiche traiettorie.