Da Moreno e Nicchi al rigore di Oliver: l'odio italiano per gli arbitri non ha fine
Di questo abbiamo già parlato, ma i tempi per i direttori di gara (Var o non Var, Goal - Line Technology, assistenti di porta…) continuano ad essere cupi. A dir la verità, gli stranieri sembrano peggiori degli italiani (vedi le Coppe europee) ma resta il fatto che l’odio e la diffidenza verso quelle che una volta venivano definite “le giacchette nere” (oggi si vestono con tutti i colori) nel nostro Paese va aumentando.
Lontani i tempi in cui si cominciava con “venduto” per finire a “cornuto”. Adesso fioccano vere e proprie aggressioni nei campionati giovanili, denunce in tribunale per presunti errori arbitrali, oltre alle solite interrogazioni parlamentari di questo o quel deputato tifoso. Odio, rabbia, furore. Dove andrebbero a finire se non ci fosse l’arbitro? Nelle botte tra tifosi o tra tifosi e forze dell’ordine, la prima risposta che viene in mente. L’arbitro catalizza, accende l’odio e la contrapposizione perché è obbligato a prendere decisioni, comunque, impopolari e restare in una torre eburnea, senza poter parlare, se non per referto, quando tutti parlano.
La seconda considerazione è che l’arbitro, non da ora, ma oggi in maniera sempre più virulenta, sia vittima della delegittimazione che, nel nostro Paese, investe le figure cosiddette istituzionali, dai medici ai professori. Si contano a decine gli episodi in cui genitori infuriati offendono gli insegnanti dei loro figli o addirittura li picchiano, come è avvenuto a Torino recentemente, quando un padre s’è presentato al colloquio scolastico con due “bravi”che, ad un cenno, hanno provveduto a malmenare il povero docente. Non ci si accontenta di esposti o denunce: spesso il medico si aspetta sotto casa sua e si minaccia o s’insulta.
Eppure c’era un tempo in cui dell’arbitro si poteva fare a meno, anzi proprio non si contemplava. Fu un barile di gin, quale primo premio d’un torneo, a decretare in Inghilterra, la necessità di trovare una figura neutra, in uno sport per gentleman che si sapevano regolare da soli. Veramente gli arbitri, quando vennero, erano due, uno per squadra. Si chiamavano umpire ed erano scelti di concerto tra le due compagini. Talmente imparziali, che nella famosa partita del 1841 a Rochdale, quella del barile di gin, fra Body-Guard Club e Fear-Noughts Club, l’umpire del Body-Guards squalifica la propria squadra, rea di aver utilizzato un giocatore che non apparteneva al club.
Nel 1870 agli umpires si aggiunge un arbitro in tribuna che supervisiona la gara. In campo, i falli sono segnalati con lo sventolio d’un fazzoletto bianco. Solo vent’anni dopo, con la codificazione delle regole (la base dell’attuale regolamento) l’arbitro diventa unico e gli umpires agiscono ai bordi del campo come gli odierni guardalinee.
Nonostante il suo cognome, Segar Richard Bastard, il primo arbitro ad usare il fischietto, rappresentò quel modello di eleganza e imparzialità che gli valse il soprannome di “The Knight of the Whistle”, il cavaliere del fischietto. Fra gli arbitri inglesi, vi fu il famigerato Ken Aston, noto da noi come “l’infame arbitro della battaglia di Santiago”: ai Mondiali 1962, in Cile, non riuscì a sedare la rissa tra cileni e azzurri che portò all’eliminazione dell’Italia. Come egli stesso confessò anni dopo, aveva perso il controllo della gara, dopo una conduzione incerta e contraddittoria. Ai mondiali del 1966 ci fu un’analoga megarissa tra i giocatori dell’Inghilterra e quelli dell’Argentina e Aston che lavorava per la FIFA ebbe un’idea. Fermo a un semaforo, ipotizzò l’uso di cartellini di colore diverso per le ammonizioni e per le espulsioni.
Fu anche l’ideatore delle lavagnette per segnalare le sostituzioni e suggerì l’utilizzo della pressione obbligatoria, uguale in ogni gara, per il pallone. Da noi, l’arbitro princeps fu Concetto Lo Bello. Altezzoso, i baffetti alla Clark Gable, aveva modi platealmente autoritari, che lo portarono ad essere soprannominato “Il Duce”.
Fra gli arbitri, ricordati come alfieri dell’ignominia, piuttosto che come coraggiosi cavalieri dalle scelte giuste, ma impopolari, si staglia prepotentemente la figura di Byron Moreno. Ecuadoriano, arbitrò l’ottavo di finale ai Modiali del 2002, tra gli azzurri di Trapattoni e la Corea del Sud, favorendo scandalosamente gli asiatici, che vinsero per 2 a 1, dopo l’ingiusta espulsione di Totti e l’annullamento del goal valido di Tommasi. Più che un incapace, sembrò un sicario dedito ai voleri d’una Federazione incline a far progredire i padroni di casa. La storia s’incaricò poi di consegnarlo alle patrie galere per un traffico di cocaina con gli Stati Uniti.
Nella Storia Universale dell’Infamia, un posto d’onore spetta al norvegese Ovrebo, che favorì spudoratamente il Bayern contro la Fiorentina in Champions e si rese protagonista in negativo nella semifinale tra Chelsea e Barcellona, favorendo in maniera smaccata i blaugrana. Solo un mese fa, dichiarò allo spagnolo Marca: “Il mio arbitraggio il peggiore della storia? Forse sì”, aggiungendo “ricevo ancora minacce di morte”. Resta il fatto che Ovrebo era un beniamino dell’UEFA, così come lo è il turco Cakir, che, a Torino nell’andata di Juve-Real, ha fatto anche peggio di Micheal Oliver “il genio”(così viene considerato nell’UEFA) del Bernabeu.
Nicchi, dunque, non è il primo a ricevere sinistri segnali di minaccia. Certo, pensando alla solertissima imparzialità di Collina, che sembra alla base di ripetuti e discutibilissimi arbitraggi nei confronti delle italiane (Milan, Lazio, Juve col Totthenam al ritorno e nelle due col Real, Roma a Barcellona) ci domandiamo cosa dovrebbe essere recapitato al designatore europeo. Facile: un biglietto di sola andata.