
Da diletto dei ricchi a gioco di tutti: 'The English Game' e la svolta del calcio che la SuperLega vuole cancellare
Non vogliamo spoilerare la storia e gli intrecci, basti qui dire che il calcio è raccontato in maniera credibile. Lo sono i protagonisti, lo è lo sviluppo della vicenda, lo sono - soprattutto - le sequenze che riguardano le partite di calcio. Non è una cosa che accade con frequenza. Anzi, negli ultimi tempi abbiamo visto pastrocchi inenarrabili. Ogni tanto si eccede nell’uso del ralenti, ma è l’unico vezzo di una narrazione solida. Il merito della ricostruzione storica è dei produttori, gli stessi di «Dowtown Abbey», la serie cult di matrice britannica.
Noi ci siamo appassionati, e un paio di riflessioni le abbiamo fatte. La prima è su come il calcio si sia trasformato - proprio in quegli anni - da diletto per pochi aristocratici a gioco popolare, per tutti. Inizialmente era un gioco per gentiluomini, il calcio. Potevano permetterselo solo i ricchi. Facevano le regole, decidevano chi poteva giocare e chi no. Dice niente? In fondo, pensandoci bene, è quello che sta succedendo anche in questi anni. E’ come se il calcio - dopo aver attraversato il ‘900 a cavallo dell’onda - fosse tornato al punto di partenza. Che cos’è la SuperLega se non un salottino d’élite per pochi club?
La seconda riflessione riguarda invece la sacralità del gioco e di tutto quello che gli gira attorno. E’ una sacralità che ha origine proprio in quegli anni e proprio lì, in Inghilterra. Le maglie, gli spogliatoio, la ritualità della partita, i nomi delle squadre - Blackburn, Notts County - la serietà con cui si comincia ad affrontare questo sport. Ad un certo punto un dirigente - vedendo l’entusiasmo generato dalla squadra - parla di «spettacolo» legato alla felicità. E’ esattamente in quel momento che nasce l’idea di calcio come «prodotto» da vendere.