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Così l'assassinio di Aldo Moro cambiò anche il giornalismo sportivo
Da quel momento in avanti e per 55 giorni durante i quali l’Italia visse, con il fiato sospeso, come se fosse stata avvolta da una bolla surreale ciascun cittadino si ritrovò a interrogarsi su che cosa realmente stava accadendo e quali avrebbero potuto essere le conseguenze di un gesto così drammatico e spettacolare per la Storia a venire.
Nello spazio che intercorse tra l’agguato e il successivo ritrovamento del cadavere dello statista italiano giustiziato nella sua prigione di via Gradoli accaddero tutta una serie di avvenimenti che, ancora oggi dopo così tanto tempo, rimangono avvolti nell’oscurità del mistero e del dubbio. L’unica certezza è che se quel barbaro atto politico e umano non fosse stato portato alle estreme conseguenze da molto tempo l’Italia sarebbe un Paese assai diverso da quello attuale poiché il “sodalizio” pensato da Moro e da Berlinguer avrebbe indirizzato la politica interna e internazionale del Paese verso ben altri lidi e stagioni meno tribolate.
L’Italia, in quei giorni, era il centro del mondo per gli osservatori e i media di tutti i Paesi. Dopo l’assassinio di Martin Luther King, avvenuto dieci anni prima negli Usa, il “delitto Moro” rappresentava l’evento più seguito e discusso a livello planetario anche perché troppi e troppo variegati erano i supposti protagonisti di quella tragica vicenda. Non solo le BR, ma la Cia e il KGB, oltre al poteri massonici legati a una certa corrente della stessa Democrazia Cristiana.
La cosa sorprendente era quella di poter assistere alla discesa in campo sul piano cronistico della stampa sportiva che, fino a quel giorno, aveva sempre accuratamente evitato invasioni di campo su fatti e argomenti i quali non attenevano il loro specifico palinsesto quotidiano. Ebbene, sin dal giorno del rapimento di Aldo Moro e fino al ritrovamento del suo cadavere nel bagagliaio di un’automobile, i direttori della “Gazzetta dello sport”, di “Tuttosport”, di “Stadio” e dello stesso Guerin Sportivo decisero di dedicare ogni giorno servizi di cronaca e di commento all’evento per le penne dei loro inviati.
Fu in questo modo che l’informazione specializzata cambiò passo e si sdoganò da quella sorta di sciocca palla al piede la quale provvedeva a fornire l’immagine del giornalista sportivo come quella di un professionista staccato dalle realtà quotidiana e sostanzialmente di “Serie B”. Il giornalista, insomma, doveva essere un “megafono” a tutto tondo per ciò che vedeva e poi doveva raccontare. Un’operazione di omologazione che riuscì perfettamente tanto che, da quel giorno in poi, i quotidiani sportivi continuarono a dedicare ampio spazio a questioni generaliste e ancora lo fanno.
Un poco, con un meccanismo simile ma contrario, come ciò che accadde per “La Repubblica” la quale nacque con l’intenzione del suo direttore Eugenio Scalfari di ignorare lo sport se non quelli, snob, come il tennis, il gol e la vela. Una sorta di apartheid all’incontrario che venne, per fortuna, annullata dopo un paio di anni e che, sotto la guida di Mario Sconcerti a dirigere “belle penne”, consentì al quotidiano romano di scendere la tra gente. Anche quella della tribù tifosa.