Cherif Karamoko: 'Arrivato in Italia col barcone, potevo morire in mare come mio fratello'
Cherif racconta in un'intervista a La Repubblica: "Era stato lui a convincermi a venire in Italia. Avevo nemmeno tredici anni, piangevo tutto il giorno. Lui lavorava in Libia, scappato dalla nostra guerra, e mi ha mandato a prendere a Conakry, la capitale. Ha pagato tutto lui, autisti, carcerieri, scafisti. Poi, è salito con me sul barcone a Tripoli dicendomi che non avevamo più nulla da perdere. Il barcone imbarcava acqua. Quando si è aperto alle onde, mi sono aggrappato a una boa, quelle che frenano l’impatto in porto. Mio fratello non l’ho visto, non l’ho visto più. Gli dedicherò tutto quello che riuscirò a fare nella vita. A scuola, nel calcio".
"Gioco a pallone da quando ho iniziato a camminare, a pensare. Mamma, le dicevo, voglio mettere una maglietta e farmi vedere da te in tv. Lei rideva e mi diceva di non sognare troppo, perché noi siamo poveri. Andavo in classe e poi per strada. La terra rossa, i campetti inventati dal nulla. Due porte, una palla. Non so che calciatore sono, me lo sono fatto spiegare. Dicono forte fisicamente, con i piedi da affinare e la tattica tutta da imparare".
"Ho visto mio padre morire nel salotto di casa, gli hanno sparato perché era il riferimento musulmano della comunità. E ho visto mio fratello più grande, sette anni più grande, sparare ai suoi assassini, buttarne giù diversi. Papà è morto in ospedale, mio fratello è scappato in Libia e da quel giorno ha iniziato a mettere via i soldi per togliermi dall’inferno. Mi telefonava tutte le sere, aveva paura volessero vendicarsi su di me".
"Tre anni dopo faccio un viaggio di nove mesi verso il Nord. Mali, Burkina Faso, Niger. I pagamenti sono iniziati al confine con la Libia. Alla prima frontiera le guardie mi hanno picchiato, senza un motivo. Ci hanno buttati in trentacinque su un furgone. Avevamo un bidone da dieci litri per attraversare il deserto, acqua per quattro giorni. Se l’autista si perde, e succede, il carico muore".
"Siamo partiti che da voi era come Natale, la mattina dopo abbiamo visto il buco sulla barca, davanti. Quando sono caduto in mare la benzina sversata dalle taniche mi ha bruciato la pelle. Sono stato quattro ore tra le onde. Marina militare, volontari, non so chi mi ha salvato. Porto di Reggio Calabria, poi ci mandano in duecentocinquanta a Villa San Giovanni. Una struttura senza riscaldamento. Per quattro mesi mangio poco e male, vado a cercare i biscotti buttati nei bidoni della spazzatura".
"Poi mi faccio forza e porto una decina di amici in Prefettura a Reggio: "Non voglio rubare, voglio giocare a pallone". Ci spediscono al Nord, Battaglia Terme, provincia di Padova. Una cooperativa sociale mi accoglie. Mi sfama e mi fa studiare l’italiano. Passo l’esame di terza media. Soprattutto gioco a pallone. Tornei a cinque, a otto, a nove. Ho diciassette anni e non so ancora nulla del calcio italiano. In un torneo mi premiano: miglior giocatore. Arianna, la più attiva della cooperativa, inizia a chiamare il Padova calcio. "Dovete fargli un provino, ha qualcosa in più". Insiste. Un giorno mi porta allo stadio mentre gioca la Primavera: lo scorso dicembre inizio ad allenarmi. A maggio mister Centurioni mi fa esordire in B, viene a vedermi anche il presidente Boscolo Meneguolo. In Guinea mi è rimasta solo una sorella".